Nuovo Giornale Nazionale – CAVALCARE LA TIGRE MA SARÀ MANSUETA?

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Procedura celere

 


di Aldo A. Mola

Si volta il foglio, si vede la guerra…

Domani, 20 gennaio 2025, si apre a Davos-Kloster il ventesimo World Economic Forum, uno tra gli appuntamenti più attesi per fare il punto sulla “salute” dell’umanità brulicante sul pianeta e cercar di prevedere il futuro per almeno un decennio: un periodo ragionevole oltre il quale si passa da stime attendibili a meri vagheggiamenti. Il documento di lavoro approntato nell’autunno 2024 per i quattro giorni del Forum, elaborato sulla scorta di 900 interviste a studiosi delle crisi, è improntato a realismo. Esso prospetta che i due lustri prossimi saranno dominati da conflitti armati tra diversi Stati. Tra le decine di guerre “a bassa intensità” già in corso, oggi, ai margini dell’attenzione concentrata su quelle tra Federazione russa e Ucraina e tra Israele e palestinesi, molte, come vulcani dormienti, potrebbero esplodere a breve con forza distruttiva incontrollabile.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

   Ma le guerre sono causa o effetto di crisi oppure grani di un’unica corona di spine che avvolge il mondo? Alla loro base si rincorrono tensioni sociali crescenti all’interno dei singoli Stati e tra grandi aree, acuite dalla percezione della fine delle risorse e quindi dalle gare tra i governi per accaparrarsene a vantaggio della stabilità interna e, al tempo stesso, dalla loro pulsione verso spazi più sicuri e contro chi bussa alla porta per avere la sua parte del benessere oggi disponibile.

   Nel 1941, durante la seconda guerra mondiale, ormai ottant’anni addietro, alle antiche libertà di pensiero, religione e dai bisogni il presidente degli Stati Uniti d’America Franklin D. Roosevelt aggiunse quella dalla “paura” (delle guerre, delle malattie…). Gli uomini, si affermò, hanno diritto alla serenità (persino alla “felicità” evocata dalla Dichiarazione di Indipendenza del 4 luglio 1776) , a guardare con fiducia al futuro. Altrimenti essi diffidano, si arroccano e si preparano a difendere con le unghie e coi denti le proprie aiuole tramite lo Stato e, se occorre, contro lo Stato. La mancanza di certezze, insomma, fa regredire all’“homo homini lupus”.

   Mentre le alleanze difensive sino a poco tempo addietro costituivano i pilastri portanti della sicurezza (era il caso della Nato), le previsioni danno per scontato che i prossimi anni registreranno l’aumento di tensioni e di probabili conflitti armati tra medie e piccole “potenze”, in assenza di poteri regolamentari sovranazionali, un tempo efficaci, oggi irrisi. Il 2024 ha certificato l’assoluta irrilevanza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, il cui segretario generale Guterres ha predicato al vento mentre il Consiglio di Sicurezza è stato paralizzato dai veti incrociati di potenze direttamente o indirettamente coinvolte nelle guerre o interessate alla loro prosecuzione perché esse logorano i contendenti e giovano agli Stati di seconda fila, fornitori di armi e a loro modo protagonisti. Fanno storia. Micidiale.

   L’anarchia internazionale oggi dominante rende impossibile un’azione comune nella difesa dell’“ambiente”, relegato nel dimenticatoio da grandi potenze quali Cina e India e dagli stessi Stati Uniti d’America e ormai troppo costosa anche nell’Europa che si erse a sua paladina, salvo poi ripiegare su trincee arretrate a cospetto dello squilibrio tra risorse e costo della stabilità occupazionale, preoccupazione ovunque dominante e tutt’uno con il sistema pensionistico e assicurativo: ovvietà per molte persone dell’“Occidente” ma chimere per tanta parte dei popoli che mancano di acqua, farine e assistenza medica. Come cavalcare la tigre? Sarà mansueta o si volterà contro il domatore?

   Le criticità che impediscono di guardare al di là del 2035, cioè di un domani a portata di programmazione d’urgenza, intaccano anche il potere salvifico o almeno consolatorio della Parola. Mentre viene invocato il ritorno alla cooperazione e alla solidarietà internazionale, anzitutto per fronteggiare nuove epidemie, la cui prossima nefasta esplosione è data per scontata da tutti gli studiosi che se ne occupano senza falsi allarmismi e senza ingenue illusioni, nessuno riesce a garantire un futuro di pace per i viventi e meno ancora per le “generazioni venture”.

Speranza o Progetto?

Se, appunto, le Parole segnano i tempi, va constatato che quella scelta da papa Francesco quale ispirazione dell’Anno Giubilare è “Speranza”, molti passi indietro o di lato rispetto a “Progetto”, che significa controllo razionale del presente, previsione e e programmazione: criteri  neopelagiani. Chi ha qualche anno alle spalle ricorda che verso la soglia degli Anni Sessanta del Novecento l’ONU lanciò il piano decennale per lo sviluppo, destinato a imprimere la svolta verso il benessere anche per i popoli sino a quel momento diseredati del Quarto mondo. Fallì, travolto dalla sequenza di guerre connesse alla decolonizzazione. Queste oggi sono rimosse dalla memoria e del tutto dimenticate a vantaggio della leggenda secondo la quale il cammino verso l’unione (per ora va scritto in minuscolo, perché la sua sostanza latita) ha garantito la pace agli abitanti dell’Europa. La realtà è molto diversa. In effetti i popoli della parte occidentale del Vecchio Continente non si sono più azzuffati in carneficine come avevano fatto nella prima metà del secolo scorso. Ma ciascuno di essi (a eccezione di Germania, Italia e Spagna, Paesi usciti malconci da un decennio di guerra e privati di colonie) si sono logorati in lunghe guerre per perpetuare il dominio sugli antichi imperi, dall’Africa all’Indocina e all’Indonesia e lembi delle Americhe. Esse coinvolsero Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Belgio e persino il Portogallo, nominalmente ancora padrone di Angola e Mozambico, dopo aver perso “enclaves” in India. Qui e là rimasugli di quegli imperi, rivestiti con nuove denominazioni, ancora sussistono. Tra gli esempi memorabili vale il caso delle Falkland mezzo secolo fa al centro della guerra guerreggiata tra Repubblica Argentina e Gran Bretagna. Ma molti altri “pezzi di sovranità” sono oggi disseminati negli spazi extraeuropei, micce di possibili nuovi sanguinosi conflitti.

   La rivendicazione della Groenlandia, antico dominio dalla minuscola Danimarca, da parte di Donald Trump non è una sortita fuori le righe, ma la profezia della carta politica del pianeta che verrà disegnata entro qualche decennio. È la Storia nel suo continuo divenire. I confini di gran parte dell’Africa e del Vicino e Medio Oriente, a parte l’Algeria che la Francia iniziò a sottomettere con metodi si orrenda brutalità sin dal 1830, sono stati tracciati tra il 1880 e le paci pattuite tra i vincitori e dettate ai vinti dopo la prima guerra mondiale. Quei confini erano così artificiali che nessuno si scandalizza se la ora Siria sia deflagrata e il suo futuro rimanga assai oscuro. Parimenti precari sono quelli dell’America centro-meridionale, nata dalle “rivoluzioni” che dal 1812 traghettarono la Nueva España sotto l’egemonia euro-statunitense.

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Tecnologie fuori controllo

Se quanto avviene e avverrà negli anni venturi rimane dunque incerto e fonte di fondate preoccupazioni, altrettanto va detto del controllo militare dell’informazione tramite i satelliti spaziali: un “mondo” sul quale il Rapporto del World Economic Forum non si pronuncia se non in modo indiretto, accennando alle “tecnologie fuori controllo”, ovvero a poteri che vanno al di là di quelli dei governi della quasi totalità degli Stati. Questi si dichiarano o rivendicano o si ripromettono di tornare pienamente sovrani o illudono i loro cittadini di esserlo, ma lo sono sempre meno o non lo sono affatto perché le decisioni supreme su di essi sono in mano altrui, di “potenze” senza territorio ma di gran lunga più forti di Stati vastissimi e bisognosi di tutto, a cominciare dalle “informazioni”. Un tempo vi erano “governi in esilio” contrapposti a quelli in carica e votati dai loro cittadini o sudditi (ve ne sono ancora e altri si aggiungono, ma senza efficacia), ora vi sono “governi” che non fanno parte di alcuna Istituzione, dall’ONU alle sue varie emulazioni. Si fondano su potere finanziario, tecnologia ed elusione da ogni vincolo formale e sostanziale. Esistono.

   Dunque le vere disuguaglianze, al di là di quanto avverte allarmato il Rapporto del World Economic Forum, non riguardano tanto le classi sociali all’interno dei Paesi ma il dominio delle tecnologie a livello globale. Su quel terreno si misurano le gerarchie tra gli “Stati”, sia fisici (un territorio con i suoi confini) sia di altra natura: i tecnocrati economico-finanziari e quelli dell’informazione, poteri fluidi, impalpabili e nondimeno decisivi, capaci di segnare per tempi imprevedibili le sorti materiali dei popoli, scatenando una sequela ininterrotta di guerre. Alla fine della seconda guerra mondiale due corti condannarono alla forca i vertici politici e militari della Germania e del Giappone. In Germania erano tutt’uno. In Giappone dipendevano dall’imperatore, che ne uscì indenne. Nessuno chiamò in giudizio chi, anche dall’“Occidente democratico”, aveva finanziato l’ascesa del nazionalsocialismo di Hitler considerandolo un bastione contro il bolscevismo di Stalin. Nei suoi ultimi tempi ci meditò il politologo Giorgio Galli, erroneamente inascoltato, quasi fosse visionario.

A scuola per capire che cosa?

A fronte della realtà effettiva odierna e delle sue prospettive di medio periodo (su quello ulteriore non è prudente pronunciarsi) suscita qualche sconcerto l’annuncio della riforma dei programmi dell’istruzione elementare e della scuola primaria inferiore (oggi in buona salute e apprezzata anche dall’estero) lasciata trasparire dal ministro della Pubblica istruzione e del merito Giuseppe Valditara, docente di diritto pubblico romano. Al momento non è possibile discuterne in modo assertivo perché non si dispone del testo della “riforma”, ma solo di un annuncio lanciato probabilmente per “sondare il terreno” in vista di ulteriori accorgimenti. La bozza contiene tuttavia alcuni spunti da subito meritevoli di considerazioni, affinché non si possa dire che una novazione di tale portata avviene nell’indifferenza generale o quanto meno di chi ancora si occupa della scuola. Una riforma dell’istruzione, destinata ad andare a regime entro un anno, inciderà sul percorso formativo di una generazione e i suoi riflessi positivi o negativi saranno verificabili tra un ventennio, quando, mentre i bambini di oggi saranno quasi adulti, la maggior parte di quanti oggi sentono di doverne discutere saranno passati all’Oriente Eterno. Proprio perciò occorre capire oggi quale sia non la francescana “speranza” ma il razionale “progetto” soggiacente alla riforma proposta da un ministro di accertata cultura storica e giuridica qual è Valditara.

   In sintesi, le novità consisterebbero (il condizionale è d’obbligo) anzitutto nell’introduzione della “musica” (“canto, suono, civiltà musicale” pare abbia dichiarato la sottosegretaria di Stato all’Istruzione Paola Frassinetti; altri aggiungono “strumenti e coro”). Nell’oltretomba se ne rallegra Gabriele d’Annunzio che nella Carta del Carnaro assegnò valore costituzionale alla musica e al teatro, non solo “rappresentazioni” occasionali ma “vita” della città dell’uomo. Però, poiché le ore di lezione nelle aule non sempre impeccabili delle scuole odierne non sono moltiplicabili all’infinito, si tratta di capire se i nuovi insegnamento vadano a detrimento di altre discipline e precisamente di quali.

   Lo stesso vale per l’ora di studio del latino (da taluni accolta con tripudio prima di saperne di più) che verrebbe introdotta dalla seconda classe della media primaria. In quanto “facoltativa” sarebbe fuori orario curricolare? In questo caso, che cosa farebbero in quell’ora gli allievi le cui famiglie non optano per il suo insegnamento? O si faranno classi differenziate: “latinisti” nelle une, riluttanti nelle altre? E quale costrutto formativo può avere lo studio del latino ristretto in un’ora la settimana? O vi si dedica il tempo necessario o è solo un occhiolino, strizzato “per vedere l’effetto che fa”. Se riforma vuol essere, quell’ora settimanale non apre alcuna porta “al vasto patrimonio di civiltà e tradizioni”, né consente di “ritrovare il tema, importantissimo, dell’eredità”, cui pare abbia alluso il ministro. Ci vuol altro per apprendere e “somatizzare” il latino (non parliamo del greco). A meno che quell’ora facoltativa serva ad anticipare la scelta della prosecuzione degli studi nella media superiore e costituisca pertanto più un discrimine che un’opportunità.

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   Se si ritiene che apprendere i rudimenti del latino sia salvifico, il suo insegnamento dev’essere obbligatorio e con adeguato numero di ore settimanali. Significherebbe però – le cose vanno dette come sono – capovolgere ab imis la scuola primaria concepita con l’introduzione della “media unica”, che ha presentato e presenta manchevolezze come ogni cosa al mondo, ma ha avuto il merito di scolarizzare sino al quattordicesimo anno d’età milioni di bambini prima ai margini dell’istruzione pubblica.

Dove para Valditara?

Il ministro ha fatto sapere di aver consultato studiosi insigni delle diverse discipline per approntare l’annunciata riforma e ha sciorinato molti nomi che non menzioniamo. Era il minimo che potesse fare. È però difficile dire se i consultati si riconoscano nelle sue proposte. Prima o poi se ne saprà di più. Chi abbia avuto a che fare con vicende analoghe sa come sia facile essere ridotto a paravento di decisioni che prescindono da qualsiasi suggerimento basato su scienza ed esperienza. Quel che risulta niente affatto convincente è il proposito, enunciato con forza dal ministro, di separare lo studio della storia da quello della geografia. Sono discipline diverse? Certo. Tanto la “storia” quanto la “geografia” sono ciascuna un complesso di specialità sicché il loro insegnamento e apprendimento, tanto più se disgiunto, dipendono dall’orario messo a disposizione. Nella scuola elementare e nella media primaria (non stiamo parlando dei cinque anni delle medie superiori, perché di questo si tratta) la loro fusione in geo-storia non è affatto infondata e, se insegnata in modo appropriato, non risulta che abbia sortito effetti negativi. L’ignoranza degli allievi non nasce dall’inadeguatezza dei programmi ma è il prodotto di insegnamento di bassa qualità, distrazione dei discenti e pretesa dei genitori di avere figli con ottimi voti, poca fatica e nessuna seccatura domestica.

   Tra i propositi del ministro lascia invece più che perplessi il primato pressoché esclusivo assegnato nello studio della storia a popoli italici, antica Grecia, Roma, cristianesimo, rinascimento, unificazione nazionale e a un generico Occidente. Nessun cenno all’Illuminismo, senza il quale non si comprendono né il Risorgimento, né il Novecento liberale? Forse va scordato per le sue venature razionali? Va osservato inoltre che se la spruzzatina di latino può essere considerata una belluria, la riduzione della storia a dimensione “locale”, qual è quella dell’Italia, costituisce un incomprensibile e inaccettabile passo indietro rispetto alle esigenze di formazione dell’italiano odierno e futuro: cittadino europeo, proiettato a confrontarsi con la molteplicità di etnie, lingue e di costumi di tutto il mondo, con i quali già è e sempre più si troverà a fare i conti nei decenni venturi, anche a casa propria.

   Lo scolaro oggi ha bisogno di essere messo in grado di capire un articolo o un telegiornale nel quale non si parla solo dell’Italia e non si citano solo le vette alpine o appenniniche ma si parla di Russia (che nei nuovi insegnamenti non sarebbe più Europa), Cina, India, Africa: insomma di tutto quello che era chiarissimo ai patrioti italiani dell’Ottocento e per sua fortuna lo era e lo rimane per la chiesa cattolica apostolica romana come di altre istituzioni internazionali quali la massoneria.

   Indubbiamente gli allievi, secondo quanto ventilato dal ministro, potranno e dovranno studiare poeti del Novecento (cita tra altri il ferrarese Riccardo Govoni e il perugino romanizzato Sandro Penna, sublime cantore dell’eros omosessuale, ma lascia ai margini Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo: due Premi Nobel…). Però perché cancellare il già oggi obliato Giosue Carducci di “Pianto antico” e di “Davanti San Guido” e altri classici della letteratura italiana? Con buona pace del ministro, gli ultimi versi del “Tramonto della luna” dello schivato Giacomo Leopardi sono comprensibili anche ai bimbi delle elementari se ben guidati. E oggi sono drammaticamente attuali: “Ma la vita mortal, poi che la bella /Giovinezza sparì, non si colora/ d’altra luce giammai, né d’altra aurora./ Vedova è insino al fine; ed alla notte/ che l’altre etadi oscura,/ segno poser gli Dei la sepoltura”.

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   Il ministro esorta infine a studiare la Bibbia. Quale dei suoi multiformi libri? Il Deuteronomio, i profeti, i lirici e i sapienziali? O L’Ecclesiaste? Forse è quest’ultimo che deve essere meditato da tutti, governo compreso: «Vanità delle vanità, tutto è vanità. Ogni cosa ha il suo tempo sotto il cielo. Tempo di demolire e tempo di edificare…» Ma per costruire non bastano speranze. Occorre un Progetto razionale, coerente con la realtà e consapevole che il mondo odierno è un universo armato sino ai denti e in corsa verso il precipizio. Gli scolari hanno diritto a conoscerlo; e i genitori hanno il dovere di fare la loro parte per aiutare la scuola a compiere la propria. Piuttosto che “riformare” tanto per dare un segnale è preferibile migliorare l’esistente. Lo insegna l’Ecclesiaste (1, 10): “nihil sub sole novum”…

DIDASCALIA:  Il mondo che venne per quello che verrà: “Alza la prora e volgila allo spazio…”.

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