Opinioni | Siamo ormai nell’epoca del «domicidio»

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Lunedì 2o gennaio alle 9.30 Luciano Violante, Presidente dell’Associazione Futuri Probabili, farà presso l’Aula dei Gruppi parlamentari un intervento nell’ambito del convegno su “La Condizione Umana” Luoghi di libertà nell’era digitale. Per la prima volta nella storia del Parlamento la conferenza si svolgerà in realtà mista: si potrà partecipare anche in ambiente immersivo da remoto in VRO/Metaverso.
Pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione

Il rafforzamento della democrazia, la difesa della libertà cognitiva, una tecnologia a misura d’uomo, la riconquista di un primato morale sono tutti obbiettivi essenziali per una nuova visione della condizione umana. Ma il loro perseguimento non può prescindere oggi dal contesto nel quale viviamo e dai condizionamenti che quel contesto esercita oggi sul nostro modo di pensare, di agire, di vivere.
Sono attualmente in corso 59 guerre tra Stati, il più alto numero dopo la Seconda guerra mondiale, e complessivamente 170 conflitti armati. L’uso intensivo che se ne è fatto, ha privato la parola «guerra» della sua macabra concretezza, come si trattasse della semplice conseguenza di una decisione neutra, di una sorta di autorizzazione amministrativa.




















































Il carico di distruzioni e di lutti, con la sua tragica contabilità, viene alla luce solo quando comincia la spettacolarizzazione delle immagini che ci astrae dalla disumanità perché diventa estetica della comunicazione.
Al centro della condizione umana non c’è più la vita, ma la morte, non più la speranza, ma l’ impotenza. Intere generazioni di giovani sono uccise, dall’Ucraina a Israele a Gaza, dal Nagorno Karabakh allo Yemen, dal Libano alla Siria, nelle decine di conflitti africani.
Siamo impietositi, ma tacciamo delle vite dei giovani russi e nord coreani mandati a morire dai loro satrapi. Come se stare, giustamente, con gli ucraini ci debba rendere indifferenti di fronte alla morte dei loro coetanei di altra nazionalità.

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La guerra di Gaza ci pone nell’alternativa di riconoscere che gli eccidi dell’esercito israeliano sono al di fuori di qualsiasi legittima reazione alla strage del 7 ottobre o di limitarci ad una cronaca giustificatrice, consapevoli del Grande Debito che l’Europa ha contratto nei confronti del popolo ebreo. Ma quel debito è contratto con il popolo ebreo, dovunque si trovi, non con uno specifico governo che invece sta portando, come ha scritto Anna Foa, al suicidio di Israele. È bene uscire dall’ipocrisia e dire la verità, anche per riguadagnare almeno una parte della dignità perduta.

Balakrishnan Rajagopal, professore al MIT e relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto alla libertà, in un recente rapporto per l’Assemblea generale, ha utilizzato un termine nuovo, «domicidio», per definire gli attacchi sistematici contro abitazioni e infrastrutture civili che si stanno ripetendo in molte parti del mondo, dalla Birmania a Gaza all’Ucraina. Non si tratta solo della distruzione di uno o più edifici, evento costante in tutte le guerre. Si tratta della deliberata e sistematica distruzione di tutte le abitazioni, delle scuole, delle università, degli ospedali, allo scopo di privare un popolo della propria identità e delle proprie possibilità di sussistenza. Proprio per questa ragione, il domicidio è tipico della guerra moderna e si accompagna al genocidio e agli assassinii indiscriminati.

In un recente servizio radiofonico, il giornalista, un eccellente giornalista, parlava di memoricidio, come complesso di azioni violentemente distruttive, che tendono a distruggere la memoria di un popolo. È un altro aspetto del domicidio. La casa e la memoria, due fattori potenti della identità di un singolo e di un popolo, sono diventati materia di guerra. Bisogna abbattere le case, le scuole, le università, gli ospedali, le biblioteche del nemico, perché così si trasforma un popolo in una mandria.

18 gennaio 2025



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