Ventidue mesi con la produzione in calo sono l’avviso di una difficoltà strutturale? Mica tanto. Parola di Gregorio De Felice, capo economista Intesa Sanpaolo. Ecco i motivi
Ventidue mesi consecutivi di produzione industriale in calo hanno aperto un dibattito sul futuro della manifattura italiana. Sulle caratteristiche della crisi in atto, sugli handicap che pesano sulla nostra industria, sulle politiche europee e quelle nazionali e sugli aggiustamenti del processo di globalizzazione. In questo dibattito un peso significativo hanno le posizioni maturate nel gruppo Intesa Sanpaolo, la più grande banca del Paese e per tradizione molto vicina all’economia reale. Gregorio De Felice ne è il chief economist e a lui abbiamo chiesto di esporre il proprio punto di vista.
Cominciamo fotografando questa crisi che allarma molto gli operatori, ma anche l’opinione pubblica nazionale.
La crisi è strutturale per alcuni settori
«Penso che sia una crisi ciclica intrecciata con la crisi strutturale di alcuni settori, automotive in primis. Non credo che sia una crisi di sistema e soprattutto non mette in discussione il modello italiano, il suo posizionamento e il suo percorso dentro una via alta della competitività. Non dimentichiamo infatti che alcuni settori vengono da un ‘22 e un ‘23 particolarmente positivi e come il nostro avanzo commerciale valga 110 miliardi al netto del petrolio. Non è tutto: la nostra industria si presenta rafforzata nella struttura patrimoniale e nella redditività».
Per scendere nel concreto prendiamo un paio di settori: la moda e la meccanica. Quale fotografia ne fa?
«La moda non resterà in crisi per sempre. Deve ritarare il rapporto tra offerta e prezzi, ma sia Altagamma sia Bain fanno già previsioni di ripresa. Quanto alla meccanica resta il grosso della nostra industria e non sono preoccupato. Certo le lungaggini nella negoziazione con la Commissione europea hanno bloccato gli investimenti 5.0 e il settore ne ha risentito».
Quindi sono tutte preoccupazioni infondate quelle che circolano?
«Da metà ‘23 gli investimenti sono calati e invece è salita l’occupazione. Questo ha determinato un calo della produttività che sicuramente induce a riflettere. Le cause sono molteplici. Hanno pesato i tassi alti, ha pesato l’incertezza geopolitica, le regole per incentivare gli investimenti, ma ascoltando gli imprenditori, come mi capita girando per i territori, quello che viene fuori è che gli utili sono in crescita a doppia cifra “ma il governo non ci aiuta”. Accade come in tante survey, gli interpellati giudicano negativamente la situazione generale, ma quando parlano della loro azienda sono positivi».
La rassegna dei settori
Nella rassegna dei settori veniamo però all’automotive…
«Abbiamo sottovalutato l’impatto delle decisioni Ue. Non si può pensare a una transizione rapida come quella delineata per l’elettrico senza predisporre i fattori abilitanti. Non si può rivendicare l’indipendenza strategica e poi dipendere dalle batterie cinesi necessarie per i veicoli elettrici. Saremo ricattabili sui prezzi e gli approvvigionamenti. Bruxelles avrebbe dovuto chiamare gli imprenditori per costruire insieme una strategia per le batterie. Penso poi all’Italia e non posso non vedere come la rete di distribuzione dell’energia elettrica sia ancora carente».
Un altro settore: gli elettrodomestici con i licenziamenti in corso.
«Da quanti anni il settore è in crisi? È da tempo che i prodotti cinesi costano un terzo di quelli italiani ed europei. Non è questione di questi mesi».
Che paragone le viene da fare tra questa crisi e quella del 2008?
«Due cose completamente differenti. Allora esportavamo un terzo del nostro prodotto, oggi siamo vicini a quota 50 per cento. In più avevamo un mix produttivo sbilanciato sulla bassa qualità. E nei 22 mesi di produzione industriale in calo noi dobbiamo considerare il peso della crisi tedesca e più in generale europea. Poi quella del 2008 era anche una crisi finanziaria. Si parlava di razionamento del credito e di carenza di liquidità delle banche. Quella era una crisi di sistema. Invece oggi il ministro Giancarlo Giorgetti può a ragione dire in audizione che la liquidità in pancia alle imprese depositata presso le banche nel secondo semestre ‘24 vale il 25,2% del Pil, quattro punti in più rispetto al ‘19».
Quindi il nodo sta nella scarsa propensione a investire da parte degli imprenditori?
«Pesano tante incertezze, non ultimo i ritardi del Pnrr. Gli imprenditori sanno che scenderanno i tassi e aspettano. Poi la vicenda del 5.0 conta, non ci sono stati mai incentivi così alti eppure nessuno li prende. La complessità precedente è stata ridotta solo recentemente e ci aspettiamo ora una risposta convinta. Qualcosa del genere rischia di accadere con l’Ires premiale».
Appena varata dalla manovra di bilancio…
«Sì, sarà complessa, nell’implementazione bisognerà evitare troppi criteri e troppi vincoli».
Geografie che cambiano
Da più parti, pur con opinioni diverse sulla natura della crisi, si invoca una politica industriale. Qual è la sua opinione?
«Francamente non ho mai capito cosa voglia dire. O significa che siamo forti in uno, due, tre settori e decidiamo di privilegiarli. Oppure se vuol dire sostenere tutto a colpi di bonus non credo che sia vera politica industriale. Trump fa politica industriale, non gliene importa niente delle rinnovabili e ritorna ai fossili. È una scelta politica, opinabile ma è una scelta. E chi aspetta le autorizzazioni per trivellare le avrà. Lo stesso per i dazi. Per noi sono un’orticaria, ma nella logica nazionalistica di Trump aumentano la competitività degli Usa. Insomma chi insiste in Italia per la politica industriale deve dire in dettaglio le cose da fare».
Nell’analisi della crisi bisogna però mettere in conto anche che sta cambiando la geografia della manifattura. E questo sembra spiazzare l’Italia.
«Certo, il Marocco è gettonatissimo ed è ormai il primo produttore di auto in Africa. La Tunisia è piena di mobilieri italiani e la Romania è il secondo Paese per investimenti diretti italiani dopo gli Usa. Che vuol dire? Che è in corso una rivisitazione delle grandi catene del valore, molte imprese stanno ripensandole e qualcuno vorrà insediarsi anche negli Usa se saranno confermati gli incentivi di Biden».
Ma tutti questi elementi non inficiano l’idea che sia una crisi solo ciclica?
«È una situazione in divenire, ma abbiamo passato momenti peggiori. Penso alla crisi petrolifera degli anni ‘70 o quella finanziaria del 2008. L’industria italiana ha una capacità di reazione superiore a quella dei tedeschi, perché è più piccola e flessibile, ha un’ampia diversificazione dei prodotti e dei mercati di sbocco. È un momento complesso in cui crisi congiunturale e nuova geografia della produzione possono andare di pari passo. Ma da questa crisi, ne sono convinto, possiamo uscirne vincenti».
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