Trump sfascia l’ordine mondiale, all’Europa il compito di colmare il vuoto

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Secondo i redattori di Meanwhile in America, la newsletter della Cnn, il discorso di commiato del presidente Joe Biden al Dipartimento di Stato di lunedì scorso è stato più di un addio a un presidente: «È sembrato un elogio funebre per ottanta anni di principi di politica estera del dopoguerra».

L’America, le sue alleanze, la sua economia e il suo potere sono molto più forti di quanto non fossero quattro anni fa, ha sostenuto Biden. Ha anche affermato che avversari degli Stati Uniti come l’Iran, la Russia e la Cina sono più deboli grazie alla sua leadership. Ha salutato un’America «che ancora una volta guida e orienta, unendo i paesi, stabilendo l’agenda, mettendo insieme gli altri dietro ai nostri progetti e ai nostri obiettivi». 

Ma, come osservano giustamente Stephen Collinson, Caitlin Hu e Shelby Rose, «la tesi di Biden secondo la quale gli Stati Uniti possono sollevare il mondo intero e moltiplicare il proprio straordinario potere attraverso le alleanze e promuovendo la democrazia è in conflitto con il principio organizzativo della politica estera di Trump: il perseguimento con metodi aggressivi dell’interesse nazionale degli Stati Uniti in un modo che non distingue tra nemici e amici e che sfrutta la forza degli Stati Uniti per dominare nazioni più piccole e più deboli».

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Le cose sono andate come sono andate e oggi Donald Trump diventerà il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti. Il lungo periodo di transizione dopo la vittoria elettorale dell’ex e futuro presidente ha offerto un assaggio della «disruption» promessa da Trump. Il tycoon ha presentato un gruppetto di candidati al gabinetto che i critici considerano terribilmente impreparati, ma molti dei suoi elettori lo hanno mandato a Washington proprio per sfasciare tutto, e selezionare subordinati inesperti è un modo per indebolire il governo. Sostiene anche di voler annettere il Canada come cinquantunesimo stato degli Stati Uniti, acquistare la Groenlandia e ha minacciato di riprendersi il Canale di Panama. Inoltre, sta già progettando di incontrare il presidente russo Vladimir Putin per parlare di pace in Ucraina, e cresce il timore che finirà per premiare l’invasione illegale del Cremlino.

Quando girava il mondo all’inizio della sua presidenza, Biden continuava a ripetere ai colleghi leader stranieri che «l’America è tornata». Ma questa settimana restituirà lo Studio Ovale proprio al tizio che, secondo lo stesso Biden, rappresenta una minaccia mortale per l’anima dell’America. 

Bsogna farsene una ragione. «In democrazia prevale la scelta del popolo e noi la accettiamo: non puoi amare il Paese solo quando vinci», ha detto Biden all’indomani della vittoria elettorale di Trump. Sapevamo tuttavia che le elezioni americane avrebbero riguardano anche noi europei e non bisogna illudersi che non cambierà nulla, che in fondo non è successo nulla e che tutto andrà come sempre è andato. 

Per quanto imperfetto, l’ordine internazionale liberale basato sulle regole in cui viviamo dal 1945 si sforza di bilanciare la forza con il diritto, gli interessi con i valori e il realismo con l’idealismo. Trump invece respinge questa definizione più ampia, seppur astratta, dell’interesse nazionale americano e, anziché opporsi, intende emulare personaggi come Putin e Xi Jinping, che parlano il linguaggio della forza bruta e delle sfere di influenza. E non sarà facile, una volta uscito, rimettere il genio nella lampada.

Sono in molti a equivocare il ruolo fondamentale che ha avuto e ha, da decenni, l’America nell’impedire che il mondo ritorni al suo passato sanguinoso e violento e che «ricresca la giungla». E i più non hanno idea di quanto il mondo possa essere pericoloso e di quanto velocemente le cose possano andare a catafascio. Specie se gli Stati Uniti si allontanano, com’è nei propositi di Trump, da quello che finora è stato l’obiettivo tradizionale della loro politica estera. 

Non sarebbe male tenere a mente che, come ha spiegato Bob Kagan in un libro di qualche anno fa, The Jungle Grows Back, l’ordine mondiale liberale in cui viviamo dal 1945 e al quale l’Italia ha preso parte con le altre nazioni europee è una «historical aberration», una deviazione dalla norma. Il nostro, ricorda Kagan, è un periodo completamente diverso dal passato. Oggi, per esempio, ci sono più di cento democrazie e proprio da quando quell’ordine si è imposto il numero delle democrazie è cresciuto. Prima, ovviamente, le democrazie erano un’eccezione. Anche in termini di prosperità, dal 1945 abbiamo conosciuto una crescita che ha registrato un incremento del prodotto interno lordo del quattro per cento annuo; mentre la crescita del pil globale nel corso della storia è stata più o meno pari allo zero. 

Prima la maggior parte delle persone ha vissuto in condizioni di estrema povertà, ha conosciuto la dittatura; e la maggior parte della gente ha vissuto in epoche durante le quali le grandi potenze, gli imperi, erano in una condizione di guerra permanente. 

Nel corso della storia, la costante è stata la guerra, non la pace. Anche in questo periodo le guerre non sono certamente mancate, ma non c’è stato nessun grande conflitto tra le grandi potenze come quelli che nel corso della storia, soprattutto nella prima metà del Ventesimo secolo, hanno causato così tanta distruzione. Tutte queste cose e altre ancora, ci ha ricordato Kagan, rendono l’ordine liberale non solo unico ma una vera e propria «anomalia». 

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Eppure, proprio a causa degli incredibili successi di questo periodo, siamo arrivati a considerare tutte queste cose come se fossero normali e addirittura scontate: la conseguenza del progresso umano, dell’inevitabile evoluzione del genere umano. E abbiamo perso di vista quanto sia costato questo ordine internazionale, i mali a cui ci ha sottratto e ci sottrae, e «quale atto di sfida alla storia e persino alla natura umana» abbia rappresentato. Di conseguenza, in Europa ci siamo convinti, ad esempio, che la competizione geopolitica fosse relegata al passato. Ma la competizione non se n’è mai andata. L’abbiamo solo «addomesticata». Quindi, abbiamo scambiato per normalità questo insieme di circostanze senza precedenti che abbiamo costruito grazie soprattutto agli Stati Uniti. L’America ha avuto, infatti, un ruolo centrale nella creazione di questo ordine. 

Gli errori non sono certo mancati e quell’ordine non lo hanno costruito da soli. Hanno collaborato con gli altri. Ma è stata l’abilità degli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, a mettere fine ai conflitti nelle due zone più critiche del mondo: l’Europa e l’Asia orientale. Erano gli unici in grado di poterlo fare. La loro posizione geografica, la loro ricchezza, il fatto di non doversi preoccupare degli attacchi dei vicini gli hanno permesso di dispiegare in modo permanente le loro truppe all’estero, mettendo fine a questi conflitti. 

È stato questo sforzo a creare le condizioni che hanno permesso si realizzasse quell’ordine «anomalo» nel quale siamo vissuti. Retrospettivamente, la graduale trasformazione del Giappone e della Germania, dalle potenze militari, ambiziose e tiranniche del passato alle potenze economiche pacifiche e democratiche di oggi ha rappresentato nel dopoguerra forse la rivoluzione più significativa nelle relazioni internazionali (più ancora del confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica nel corso della Guerra fredda). 

Ma se gli Stati Uniti si allontanano dal tradizionale obiettivo della loro politica estera, se appaiono sempre di meno come tutori affidabili di questo ordine, se ora Trump riporta addirittura in auge l’imperialismo del XIX secolo, le altre nazioni saranno costrette a badare sempre di più a loro stesse (anche perché nessuno è in grado di accollarsi il ruolo dell’America) e la giungla è destinata a ricrescere.

Se guardiamo all’Europa di oggi, ciò che si vede è, per dirla con Kagan, «il ritorno della storia e della natura umana». Decenni dopo essere state bandite dall’Occidente, le forze oscure della politica mondiale – tendenze illiberali, autocrazia, nazionalismo, protezionismo, sfere di influenza, revisionismo territoriale – hanno rialzato la testa. Cina e Russia hanno deluso le speranze di chi pensava che avrebbero rapidamente realizzato una transizione verso la democrazia e sostenuto l’ordine mondiale liberale. Al contrario, hanno rafforzato i loro sistemi autoritari all’interno e hanno aggirato le norme all’esterno. E con il Regno Unito che ha votato per la Brexit e gli Stati Uniti che hanno eletto e rieletto Donald Trump, i principali produttori dell’ordine mondiale liberale hanno scelto incredibilmente di indebolire i loro sistemi.

In tutto il mondo, insomma, è emersa una nuova mentalità nazionalistica, che vede le istituzioni internazionali e la globalizzazione come minacce alla sovranità nazionale e all’identità. Putin, per capirci, non è un pazzo, è un nostalgico dell’impero sovietico (di lingua russa) che sogna di ricreare. Lo ha spiegato benissimo, all’indomani dell’invasione, l’ambasciatore del Kenya alle Nazioni Unite, Martin Kimani, che al Consiglio di sicurezza ha pronunciato un discorso contro l’aggressione russa che è diventato virale.

Il Kenya e quasi tutti i paesi africani – ha ricordato Kimani denunciando un comportamento fin troppo familiare ai paesi usciti dal colonialismo – sono nati con la fine degli imperi: «Non siamo stati noi a tracciare i nostri confini. Sono stati tracciati nelle lontane metropoli coloniali di Londra, Parigi e Lisbona senza alcun riguardo per le antiche nazioni che hanno separato. Oggi, oltre il confine di ogni singolo paese africano, vivono dei nostri connazionali, con i quali condividiamo profondi legami storici, culturali e linguistici. Se, al momento dell’indipendenza, avessimo scelto di costruire gli Stati sulla base dell’omogeneità etnica, razziale o religiosa, saremmo ancora impegnati in guerre sanguinose. Invece, abbiamo convenuto che ci saremmo accontentati dei confini che abbiamo ereditato ma avremmo comunque perseguito l’integrazione politica, economica e giuridica continentale. Piuttosto che formare nazioni che guardassero sempre indietro nella storia con una pericolosa nostalgia, abbiamo scelto di guardare avanti ad una grandezza che nessuna delle nostre numerose nazioni e popoli aveva mai conosciuto (…) Tutti gli stati formati da imperi che sono crollati o si sono ritirati contengono molti popoli che bramano l’integrazione con i popoli degli stati vicini», ha aggiunto Kimani.

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«Il che è normale e comprensibile. Dopotutto, chi non vuole unirsi ai propri fratelli e condividerne gli obiettivi? Tuttavia, il Kenya rifiuta l’idea che un simile desiderio possa essere perseguito con la forza. Dobbiamo completare il nostro processo di recupero dal fuoco che cova sotto la cenere degli imperi scomparsi in modo da non ripiombare in nuove forme di dominio e di oppressione. Abbiamo respinto l’irredentismo e l’espansionismo a qualsiasi titolo, inclusi i fattori razziali, etnici, religiosi o culturali. Lo rifiutiamo ancora oggi».

In Italia, si sa, sono in molti a sottovalutare il significato e le conseguenze dell’intervento militare russo in Ucraina. Eppure, quella di Putin non è una guerra (solo) all’Ucraina che vuole diventare una democrazia europea integrata nelle istituzioni occidentali: è una guerra contro l’ordine mondiale creato nel secondo dopoguerra. L’obiettivo di Mosca (e di Pechino) è quello di ridefinire, a loro vantaggio, l’equilibrio tra gli attori. La guerra, scrivevo ormai qualche anno fa, «ha evidenziato che l’Ue e la Russia rappresentano modelli di integrazione politica ed economica – di più: due universi – che collidono.  La Russia persegue una politica neo‑hobbesiana nutrita da una narrazione conservatrice: cerca di accreditarsi come custode dei valori della tradizione in contrasto con l’Occidente che si erge a baluardo dei diritti individuali. Ma ciò significa il ritorno alla politica di potenza, alla condizione precedente alla seconda guerra mondiale, in cui, come ha scritto il Wall Street Journal, “il più forte si impone sul più debole e i despoti conquistano terreno”. Come si fa a non vedere che se il principio che ha mosso Putin – la supposta necessità di proteggere i diritti e l’incolumità della popolazione russofona – dovesse affermarsi come normale, la giostra è destinata a ripartire? Kaliningrad si chiamava Königsberg (la patria di Immanuel Kant), Pola è italiana. Dal nostro confine orientale a Mosca cambia lingua ogni venti chilometri. Ricominciamo daccapo? Il ritorno della vecchia storia nel cuore del continente preannuncia, come abbiamo già visto nella ex Jugoslavia, il ritorno della guerra come strumento ordinario della politica. Putin non è un attore tra i tanti, è uno spettro del passato».

In una vignetta di qualche giorno fa, Bill Bramhall ha disegnato Putin che, alle prese con la mappa dell’Ucraina, dice: «La voglio quindi la prendo e basta». Accanto a lui, Trump afferra le carte geografiche della Groenlandia, del Canada e di Panama e replica:«Hold my beer». Posso fare di meglio. 

«Non c’è niente di nuovo – ha scritto Andreas Kluth –in questa visione del mondo; è semplicemente un ritorno alla norma storica negli affari internazionali, che gli studiosi chiamano anarchia e che a volte può assomigliare a un ring di pugilato. Oggi più che mai, questa impostazione di default può adattarsi alle grandi potenze. Ma le nazioni più piccole ovunque dovrebbero rileggere il capitolo di Tucidide sul saccheggio di Melo e rabbrividire. Trump non invaderà Panama, la Groenlandia o il Canada. Ma non difenderà nemmeno l’Ucraina; né, forse, Taiwan o persino il Giappone o l’Estonia».

L’Europa è sempre più sola. Il guaio è che senza America non c’è Europa. Capiamoci: non sprofonda il continente. L’Europa delle cattedrali, dell’arte, della cucina, campa uguale. Quella che non reggerebbe è l’unione europea, quella costruzione artificiale, fatta di norme e di regole, che ha tenuto insieme, per la prima volta, nazioni e popoli diversi perennemente in conflitto.

Senza gli Stati Uniti torneremo a sbudellarci allegramente come abbiamo sempre fatto nei secoli dei secoli. C’è infatti un legame strettissimo tra il rafforzamento dell’Unione europea e il rapporto positivo con gli Stati Uniti. La difesa europea va intesa come il secondo pilastro della Nato secondo lo schema De Gasperi‑Spinelli della Comunità europea di difesa. Il che presuppone un Occidente coeso e non separato e nessun cedimento alle impostazioni neutraliste che tendono a opporre Ue e Stati Uniti (che peraltro possono vincere la sfida cruciale sulla tecnologia solo rinvigorendo l’alleanza transatlantica). Del resto, basterebbe chiedersi: senza la presenza degli Stati Uniti come si fa a reggere la Zeitenwende della Germania, il suo ritorno nella storia e il suo conseguente riarmo che, non a caso, avviene nella Nato e non fuori dalla Nato? 

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E ancora: i paesi dell’Europa centro‑orientale, che hanno paura dell’aggressività russa, si fidano di più degli Stati Uniti o dell’Europa (che peraltro non è più né può continuare a concepirsi come l’Europa dei sei paesi fondatori della comunità europea del Trattato di Roma)? Possiamo dar loro torto? E aggiungo: noi italiani ci fidiamo di più dei tedeschi o degli americani? Il mondo intorno a noi è cambiato. E sarà come approdare su un altro pianeta. 

Non sarà facile. Ma – proviamo guardare il bicchiere mezzo pieno – è presto però per scrivere l’orazione funebre dell’ordine liberale globale. L’ascesa delle forze e dei leader illiberali è certamente preoccupante, ma le istituzioni che abbiamo creato dopo la Seconda guerra mondiale sono molto resistenti. E la visione liberale che presuppone stati nazione che cooperano tra loro per garantirsi a vicenda sicurezza e prosperità resta oggi fondamentale così come lo è stata in ogni periodo dell’età moderna. Si tratta, ovviamente, di correggerne i limiti. Ma dopo la Seconda guerra mondiale abbiamo effettivamente ricacciato indietro la storia e la natura umana per settant’anni e siamo in grado di farlo ancora. Finché l’interdipendenza – economica, legata alla sicurezza, all’ambiente – continuerà a crescere, le persone e i governi saranno spinti a lavorare insieme per risolvere i problemi e per non subire danni molto seri. 

Oggi, infatti, le istituzioni globali sono necessarie per realizzare interessi umani fondamentali. Non è scritto da nessuna parte che la storia debba finire con il trionfo del liberalismo, ma una cosa è certa: per essere decente, l’ordine mondiale deve essere liberale. Il disruptor è tornato. Toccherà perciò all’Unione europea e ai paesi che ne fanno parte colmare – se ne saranno capaci – il vuoto politico che sarà provocato dalla sterzata (annunciata) dell’America di Trump. «L’ordine liberale – scrive Robert Kagan – è tanto precario quanto prezioso. È un giardino che ha bisogno di cure costanti, affinché la giungla non ricresca e ci inghiotta».



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