“Bisogna accelerare per porre fine all’emergenza” — idealista/news

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per lavori di ristrutturazione

 


Il provvedimento ribattezzato Salva Milano, ossia la proposta di legge relativa all’interpretazione autentica in materia di urbanistica sulle questioni che bloccano da mesi cantieri e progetti nel capoluogo lombardo, si trova in questo momento ferma al Senato. Cantieri fermi, funzionari indagati, architetti e imprese edili in difficoltà. Ecco perché per Federico Aldini, presidente dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Milano bisogna accelerare per porre fine all’emergenza.

Palazzo Madama sta valutando la misura per capire se passare all’approvazione finale o riaprire il dibattito riportando il testo nuovamente all’esame della Camera.  Tra coloro che stanno invitando il mondo della politica a fare presto, per porre fine a una situazione che sta causando gravi difficoltà a tutto il settore, è Federico Aldini (Milano, 1966, ndr) architetto e presidente dell’Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Milano.

In più occasioni ha dichiarato che è importante fare presto.  Quali sono i rischi relativi di un ulteriore rinvio del provvedimento?

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Nel mio ruolo di presidente dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Milano esprimo il punto di vista dei professionisti. In questo momento ci sono ben quindici procedimenti in corso aperti dalla Procura di Milano. Molti i cantieri fermi, numerosi gli studi che non possono svolgere il loro lavoro e che hanno l’unica colpa di aver rispettato le regole esistenti.  È da un anno che ci occupiamo di questa vicenda e purtroppo, insieme all’Ordine degli Ingegneri e al Collegio dei Geometri, avevamo già chiesto ai ministri Nordio e Salvini chiarimento sulle norme. Il nocciolo della questione, infatti, è che sono state messe in discussione regole, prassi e procedure che a Milano si stavano utilizzando ormai dal 2013. Per noi professionisti è stata una doccia fredda.  Oggi, tuttavia, alcuni degli elementi che vengono messi in discussione, non riguardano solo la nostra città, ma anche altri Comuni. 

Per noi questo Salva Milano non è un traguardo, ma un punto di ripartenza: come professionisti abbiamo bisogno di norme chiare e regole certe.

 Ciò che i professionisti hanno fatto per questi 13 anni era conforme a quanto riportato nei regolamenti e persino all’interpretazione che anche la giustizia amministrativa aveva dato per anni.

Lei ha parlato di norme in uso da anni nel settore, ma, quindi, per rendere la materia comprensibile anche ai non addetti ai lavori, qual è il punto che ha creato le maggiori difficoltà interpretative? 

I problemi interpretativi relativi alle leggi sull’edilizia possono in sintesi essere fatti risalire alla mancata revisione del Testo unico per l’edilizia (il d.P.R. n. 380/2001). Da anni ci si aspetta una revisione. 

Non è mai stata fatta una revisione organica e complessiva della norma, ma si sono susseguite una serie di modiche che hanno cercato di seguire in qualche modo il cambiamento che stava avvenendo nelle città. 

Occorre precisare che da anni, con qualsiasi tipo di strumento urbanistico, ci si è dati l’obiettivo di evitare o ridurre al minimo possibile il consumo di suolo.

Questo assunto comportava che nel momento in cui si decideva di andare a intervenire sul “costruito”, e quindi non andando a occupare nuovi territori, ci si è posto il problema di come qualificare l’intervento edilizio. Con riferimento a tutti i casi in cui si va a demolire una costruzione esistente, dal 2013 il Testo unico per l’edilizia all’articolo 4, lettera D, disciplina la ristrutturazione ampliandone la definizione e comprendendo anche gli interventi che prevedevano la demolizione e ricostruzione dell’edificio preesistente, anche con forma diversa, sagoma diversa e destinazione d’uso diversa.

L’unico vincolo è quello di carattere quantitativo: in pratica se ho una casa di 10 metri cubi che è bassa e larga la posso ricostruire con una diversa forma, con una diversa destinazione d’uso etc., purché la quantità che vado a ricostruire rimanga la stessa (e in quel caso rientrava nella ristrutturazione edilizia). 

Ma quindi come va inteso il concetto di ristrutturazione?

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Il nocciolo della questione è proprio nella definizione di ristrutturazione. Dal 2013 in poi ci sono state ben sette o otto modifiche di quest’articolo; nel 2020 addirittura poi è uscita una circolare che chiariva il concetto ancora meglio. L’obiettivo era quello di distinguerlo dalla nuova costruzione che va a occupare nuovi terreni liberi.

La ristrutturazione edilizia, pur prevedendo la demolizione e la ricostruzione, rientrava in ogni caso nel principio della ristrutturazione edilizia in quanto tale proprio perché non aveva la finalità di andare a occupare nuovi terreni, ma di costruire dove si era già costruito in passato sostituendo edifici fatiscenti o non compatibili con le nuove destinazioni d’uso.  Negli anni ci sono state poi delle leggi regionali che per stimolare la ristrutturazione edilizia, e quindi gli interventi su quanto era già stato costruito, prevedevano anche degli sconti sugli oneri.

È corretto dire che la stratificazione di normative ha favorito questo ginepraio?

Come succede spesso in Italia, ci sono delle norme nazionali, delle leggi regionali e delle leggi e dei regolamenti comunali. Questa stratificazione rappresenta un problema enorme ma occorre adesso dipanare la matassa.

Quello che viene messo in discussione in questo momento, a proposito della famosa legge del 1942, è il fatto che alcune tipologie di intervento, cioè quelle su edifici più alti di 25 metri o che superavano i 3 metri cubi metro quadro, dovessero necessariamente avere un piano attuativo. In realtà questa previsione è stata superata negli anni.

Il titolo quinto della Costituzione ha ampliato la facoltà delle regioni di legiferare sull’urbanistica: le leggi regionali hanno superato il tema dell’interpretazione dei limiti previsti dalla legge del 1942 (legge 17 agosto 1942, n. 1150, ndr) in materia di interventi su edifici esistenti in ambiti edificati e urbanizzati, demandandola ai Comuni nell’ambito dei Piani di Governo del Territorio. Il Comune di Milano ha un PGT ed è uno dei pochi Comuni che ce l’ha e che continua ogni 5-6 anni a rinnovarlo. Per questo motivo ritengo che tutti i professionisti abbiano lavorato in assoluta buona fede attenendosi a quanto previsto nelle norme, così come hanno fatto tecnici, funzionari e dirigenti del Comune di Milano.

Ipotizziamo che il SalvaMilano non venga approvato dal Senato nella sua formulazione attuale. Che cosa potrebbe accadere? 

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Cerchiamo subito di smentire quanti dichiarano che il SalvaMilano autorizza a costruire senza nessuna regola. Non è così, le regole esistono, il SalvaMilano è una norma interpretativa di disposizioni già esistenti. Se si vogliono rivedere queste regole, perché ritenute non più al passo con i tempi o non adeguate rispetto ai bisogni abitativi, noi come professionisti siamo disposti a fornire il nostro contributo tecnico.

 L’importante, in questo momento, è fare chiarezza e farlo in tempi brevi: se le regole che abbiamo usato dal 2013 a oggi non saranno più valide, e quindi qualora il SalvaMilano non venisse approvato, si porranno interrogativi di difficile soluzione. 

Che cosa dovrebbero fare gli addetti ai lavori per demolire un fabbricato e ricostruirlo? Quali pratiche potranno essere utilizzate? Quelle per la ristrutturazione o per la nuova costruzione? Senza chiarezza su questi punti anche l’approvazione di un nuovo PGT da parte del Comune non andrà a risolvere il problema. L’edilizia ha bisogno di regole chiare e tempi certi: oggi invece abbiamo cantieri bloccati, fondi di investimento in fuga, ditte e studi professionali in difficoltà e acquirenti in stand by.



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