Giustizia trasformativa e trama alternativa: dialogo con Giusi Palomba – Change The Future

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“Cosa succede quando a essere accusato di stupro è un amico? E cosa succede quando una comunità politica decide di rifiutare l’intervento poliziesco e del sistema di giustizia patriarcale e di prendersi in carico un percorso di riparazione con la sopravvivente? 

Questa è una testimonianza dall’interno dei movimenti sociali di una metropoli europea, basato sulla pratica di un femminismo anticarcerario e sul ricorso alla giustizia trasformativa.” 

Così si legge da “La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere” (Giusi Palomba, Minimum Fax, 2023).

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Ho incontrato Giusi Palomba, scoprendo di aver attraversato nelle nostre biografie luoghi comuni che, dal Vesuvio allo schermo di Meet dalle nostre case, ci hanno riunite in un dialogo sulla giustizia trasformativa e, in qualche modo, sul femminismo dal basso. 

Partendo dal suo libro “La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere”, abbiamo parlato di collettivi, di esperienze personali che diventano comunitarie, del viaggio verso la scoperta della giustizia che trasforma le relazioni – tenendo fuori da sé l’istituzione, la polizia e il sistema carcerario – e di come questa visione possa essere implementata all’interno della società italiana, partendo dal modello catalano.

Uno degli snodi essenziali, per capire il senso del dialogo, è il bisogno di una transizione da un approccio punitivo a uno trasformativo, in particolare, nei contesti di violenza contro le donne, in cui è necessario mettere in discussione il ruolo della comunità, che deve essere messa nella condizione per cui possa essere in grado di fornire risposte e soluzioni adeguate per la prevenzione e la risoluzione di conflitti. 

Come ti sei avvicinata a questi temi? 

Ho fatto parte di una situazione in cui era in corso un processo di responsabilizzazione. 
Viverlo dall’interno è stato come dare un senso ai pezzi di un puzzle finalmente connessi. 
Questo non significa avere il quadro completo, ma che alcune contraddizioni abbastanza insopportabili, oggi sono più riconoscibili e quindi ci posso lavorare su. Non spariscono e ne esistono di sicuro delle altre, ma era importante per me poter parlare di carcere e soprattutto di abolizione del carcere dall’interno del femminismo Era uno dei nodi da sciogliere e, incontrando la giustizia trasformativa, ho qualche strumento in più per farlo.

Prima di questa esperienza avevi bazzicato in collettivi femministi?
Mi sono trasferita in Catalogna poco prima che nascesse il movimento Ni una menos, ma in Spagna esistevano miriadi di collettivi femministi non necessariamente legati alla rete. La differenza che ho incontrato probabilmente è stata quella di un discorso anti-punitivista molto più presente e visibile che mi ha colpita molto.
Io non ho fatto parte di nodi specifici, come nel caso italiano di Non una di meno, ma di gruppi femministi, come l’associazione di cui parlo nel libro.  Mi interessava poi chi stava avendo a che fare con protocolli sulla questione di abusi e conflitti all’interno dei gruppi anche seguendo percorsi formativi specifici. 

Se penso alla mia esperienza personale – durante gli anni universitari – posso dire che certe dinamiche erano le stesse che c’erano fuori, non si era immuni neanche dentro a questi luoghi, no? 
Mi sono ritrovata molto in quello che hai scritto, e mentre scrivevo la mia tesi magistrale, e ti leggevo, mi chiedevo se esistessero esperienze simili anche in Italia. 
Poi, per te e per le persone attorno a te, anche il tuo libro ha avuto una risposta trasformativa?

Posso riflettere solo su ciò che vedo durante gli incontri, su ciò che ascolto o percepisco, su ciò che mi arriva come racconto – che è sicuramente parziale – e quindi non voglio mai dare risposte generali, più che altro perché non vivendo in Italia, non lo so.
Non so se sia merito del libro, forse i tempi erano maturi e tanti contenuti sullo stesso tema stanno emergendo.
Si stanno traducendo cose nuove e ne sono felice. Se devo citare un effetto della Trama che mi ha colpito è stato il proliferare dei gruppi di lettura, in qualche modo leggere insieme ad altre persone è diventato molto naturale, per elaborare i punti più difficili e trovare conforto. Non potevo desiderare di meglio.

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Mi sono segnata una frase del tuo libro: “L’idea di punire con l’esclusione e l’isolamento di chi ha inferto un danno sembra l’unico modo possibile di garantire sicurezza, non c’è altro nella nostra immaginazione. Nessuno ci racconta un’alternativa”. 
Credo che questo abbia molto a che fare a quello che ho vissuto mentre scrivevo di giustizia riparativa. 
Infatti, durante quel mio processo di ricerca, un amico giornalista mi disse: “Guarda esiste anche quest’altra forma”, ma se non me l’avesse detto lui non avrei conosciuto quest’altro livello di giustizia
Per me è stato molto rivelatorio: la logica carceraria non la condivido. 
Questo si collega molto a quello che dici tu, quindi ti volevo chiedere: dare responsabilità alla comunità, alla collettività, senza coinvolgere le istituzioni, ha dato i risultati sperati?

Se vogliamo ragionare sui risultati è importante fare un passo indietro, riflettendo sul contesto e anche sui processi storici che hanno portato a un certo tipo di attivismo, in particolare in Catalogna. 
Quell’area politicamente è più libertaria: c’è sempre stata una grossa critica allo Stato e una grandissima repressione. Di conseguenza, la cultura ha visto linee di pensiero di stampo più anarchico, con una critica allo Stato e alle istituzioni totali: da quell’humus si sono sviluppate certe tendenze. 
Non tutti i collettivi politici hanno dei protocolli per abuso, implementati nella loro pratica politica, però, è più facile che ci siano state più elaborazioni, in qualche modo, per le motivazioni che ci sono dietro. 

Come ti sei avvicinata a questi processi?
Io ho cominciato a fare politica “dietro le quinte”. Non ero quella che prendeva i microfoni durante le iniziative o che interveniva molto durante le assemblee. Ascoltavo e facevo manovalanza, ma di sicuro sono stata parte di realtà in cui la componente anti carceraria era molto forte. Anche nei movimenti italiani, la critica al carcere è sempre stata molto presente, ma la differenza, secondo me, è che quei movimenti erano molto maschili e partivano da un’idea, un sottotesto, che le donne che si rivolgevano alle istituzioni – come i Tribunali – per rendere visibile la violenza, erano giustizialiste. 
Invece, il punto da cui partono le elaborazioni di giustizia trasformativa sono un po’ diverse.
Partiamo dalla realtà delle sopravvissute. 
Partiamo dai saperi femministi.
Dal mettere insieme quella critica alle prigioni, allo Stato, con la protezione delle persone che hanno subito violenza.
Queste due tensioni – la critica e la protezione – vanno sempre insieme. Nei casi in cui una prevale sull’altra, allora, si assiste a un’eccessiva fiducia nei confronti  del carcere oppure a una forma di punitivismo e giudizio nei confronti delle donne che si rivolgono allo Stato, per protezione. 
Quando una persona non ricorrere alla comunità per ricevere protezione, ma alle strutture dello Stato, è importante chiedersi cosa manca in quella comunità per garantire tutela e pratiche alternative nei processi.

Di cosa abbiamo bisogno, quindi, come comunità italiana, per attraversare questi processi alternativi?

Non ci si imbarca in queste pratiche da un giorno all’altro, ma è necessaria tanta preparazione e un’autovalutazione delle risorse. Dalle domande: cosa possiamo mettere in campo come comunità e cosa invece manca?
È importante perché, altrimenti, rendiamo la vita ancora più pericolosa per le persone che hanno subito violenza.

Dopo la pubblicazione del libro, qualcuno ti ha detto che non dovevi scrivere di loro? 

Ciò che ho pubblicato riguarda alcune delle persone che erano coinvolte nel processo di responsabilizzazione, quindi, prima di scrivere, c’è stata una forma di consenso.
Molti dettagli sono stati resi irriconoscibili, in ogni caso. 
Sono ancora in contatto con delle persone, anche per parlare di questa situazione, e so che qualcuna, tra cui me, ha continuato gli studi sul tema della facilitazione dei gruppi, di cui si parla nella seconda parte del libro, riprendendo un po’ il nostro percorso. 
Il processo non finisce mai davvero: è una tensione continua.
Una persona che ha agito violenza, allo stesso modo la sua comunità, avrà a che fare con ciò che è successo a vita.

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In ottica femminista, vedi la giustizia trasformativa come uno strumento anche di lotta politica? 

La giustizia trasformativa agisce per un ideale politico: l’abolizione delle carceri e della polizia, come tensione ultima. 
Si esprime attraverso varie pratiche: educazione sessuale e affettiva, gruppi di responsabilizzazione maschili, educazione al consenso.
Tutte insieme generano una trasformazione che mira a diminuire la violenza nelle comunità, diminuendo il ricorso a carcere e polizia. 
Per me è uno strumento di lotta politica, anche se a volte non è immediato. Ho bisogno di operare una distinzione tra il mio ruolo di facilitatrice,  quello di attivista e anche di scrittrice. 
Nel mondo dell’attivismo, abbiamo la necessità di avere le cose molto chiare, di comunicare attraverso gli slogan e di sapere di stare dalla parte giusta. Invece, quando facilitiamo i gruppi ci confrontiamo con la vulnerabilità: un tema complesso. Se nel primo caso schierarsi è la priorità, nel secondo emergono altri livelli di coinvolgimento. Nel lavoro di scrittura, poi, per me era importante raccontare una storia e non mettere su un manuale. Non scrivere per fissare dei modelli, ma parlare di possibilità.

Il tuo libro ha una forma tutta sua, per quale motivo l’hai scelta?

Non mi interessava scrivere un saggio classico, di teoria politica – e probabilmente non ci sarei neanche riuscita – quindi, prima di tutto, per me esplorare la lingua è stato anche un modo fondamentale di trattare il tema. Per fortuna, molte persone si sono avvicinate al libro anche per questo. 
Poi, anche perché apre diversi canali di comunicazione probabilmente. 
C’è chi si è dedicato di più alla parte narrativa, chi più alla parte “saggistica”, chi si era più affezionata alla questione dei film e delle serie TV o al lavoro con gli uomini. 
Può anche essere preso un po’ a pezzetti il libro e credo sia molto bello, perché anche io sono molto discontinua quando leggo o quando imparo le cose.

Sì, anche io, devo confidarti che la seconda parte del libro devo ancora leggerla. 
Per salutarci, vuoi aggiungere qualcosa sul legame tra la giustizia trasformativa e i femminismi?

Secondo me l’abolizionismo lavora con il femminismo. Angela Davis è una delle più grandi teoriche rispetto a questo. Lei parla molto di relazionalità: il femminismo e l’abolizionismo sono legati da una relazione continua e dinamica. Questo è il motivo per cui è necessario non avere un materiale monolitico su cui lavorare, ma agire per tentativi.
Non ci aspettiamo, ovviamente, che il carcere o la polizia scompaiano da un momento all’altro, ma rimaniamo in una negoziazione continua. 
Non è scontato che il femminismo e l’abolizionismo siano legati. 
Infatti, per me, uno dei nodi più difficili da gestire, quando  avevamo a che fare con il femminismo, era il fatto che ci si fermasse al momento della visibilizzazione della violenza, disinteressandosi di quello che veniva dopo.
Questo non significa essere ingenue e pensare che, a volte, non sia necessario arrivare al carcere per mettere al sicuro una persona, però vuol dire tendere verso un mondo in cui non ce ne sia bisogno.
Non perché siamo più buone, ma perché è inefficace. La punizione non è educazione e le persone isolate e recluse diventano ancora più rabbiose e pericolose. 
Se cerchiamo di operare delle trasformazioni, possiamo auspicare che questo non avvenga. 

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Copertina del libro “La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere”.

Fonte: https://www.minimumfax.com/shop/product/la-trama-alternativa-2563



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