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La partecipazione cambierà il sistema di contrattazione, dando maggior protagonismo ai contratti di secondo livello. Ne conseguirà una perdita di centralità delle grandi confederazioni, datoriali e sindacali, che per tanti anni non hanno voluto una legge sulla partecipazione. L’Ugl, da sempre convinta della necessità di questa svolta, appoggia la scelta della Cisl che ha voluto questa legge. È quanto ci dice Paolo Capone, segretario generale dell’Ugl, in questa intervista.
Capone, siamo alla vigilia del varo della legge sulla partecipazione?
Così sembra. Ed è un bene che il governo abbia disposto nella legge di bilancio un finanziamento, non generoso, ma comunque un segnale di attenzione verso un dettato della Costituzione. È stata brava la Cisl a presentare questo disegno di legge popolare.
Voi siete d’accordo con le indicazioni previste?
Abbiamo apprezzato l’impianto complessivo. Nel merito presenteremo degli emendamenti per assicurare l’obbligatorietà, che crediamo sia necessaria per assicurare un mondo di relazioni industriali che sia basato non sulla lotta di classe, ma sulla collaborazione tra capitale e lavoro.
Da quando l’Ugl sostiene la partecipazione?
Da sempre. Il primo articolo del primo statuto della nostra confederazione la indicava come modello di gestione delle aziende, per avere una più elevata produttività e poter poi godere dei benefici di questa maggiore produttività. Nelle sue varie forme, fino alla divisione degli utili.
Ma perché non è arrivata prima questa normativa? Di chi è la responsabilità?
Pietro Ichino, uno studioso rigoroso, già da anni annette questa responsabilità alle grandi centrali, datoriali e sindacali. Cgil, Cisl e Uil da una parte, Confindustria e le altre confederazioni dall’altra non hanno mai avuto il coraggio di compiere un passo in avanti in questa strada.
Per quale motivo?
Perché il sistema della partecipazione prevede un contratto quadro di primo livello, e poi una folta declinazione al livello decentrato, in azienda, per mettere ogni luogo produttivo nella condizione di applicarla. Questo fa perdere importanza alla centralità dei contratti nazionali e quindi delle grandi centrali a favore della contrattazione locale. È per questo che si è creata negli anni una convergenza di interessi tra queste centrali sindacali e datoriali per mantenere la centralità politica dei contratti e non demandarla ad altri livelli.
La nuova legge porterà innovazioni nella contrattazione?
Per il momento no. L’avrà in qualche azienda più attenta a queste esigenze. Resteranno i grandi contratti che stabiliranno i diritti inalienabili, ma poi ci sarà un fiorire di negoziazioni di secondo livello per stabilire come organizzare il lavoro.
Questo significherà una spinta verso la contrattazione di secondo livello, al momento non molto diffusa?
Assolutamente sì. Ci sarà senza meno un campo di applicazione più ampio. Adesso al secondo livello vengono riservate solo alcune materie, ne saranno demandate di più. Credo che sia una scelta di buon senso costruire il lavoro intorno a un progetto che sia flessibile rispetto alle esigenze della produzione.
La Cgil non ha mostrato di apprezzare una nuova normativa, anzi, si è espressa decisamente contro.
Non è nelle sue corde. La Cgil nasce come sindacato di scontro, sulla base dell’ideologia marxista e tutte le ideologie sono fortemente radicate. Ma i tempi sono cambiati. Erano cambiati già quando è stata emanata la Costituzione, tanto più adesso.
La partecipazione dunque secondo voi fa bene alla contrattazione?
Sì, alla contrattazione, alle imprese, ai lavoratori, al paese.
La contrattazione peraltro di questi tempi non sta tanto bene. Ci sono difficoltà notevoli.
Ci sono soprattutto ritardi clamorosi. A cominciare dal pubblico impiego, perché lo Stato come datore di lavoro è stato poco attento alla necessità di rinnovare i contratti e questo ha provocato dei problemi notevoli. Ma anche nel privato ci sono stati guai. Le difficoltà del settore, infatti, hanno costretto a rinnovi con bassissimi aumenti salariali.
Un problema di quali anni?
Se vogliamo fissare un discrimine, un prima e dopo, questo è la caduta della scala mobile, che comunque garantiva l’adeguamento alla crescita dei prezzi di un determinato paniere di beni.
Che è successo allora a vostro avviso?
Dall’euro in avanti prima i tassi di interesse molto bassi, poi l’inflazione hanno generato l’esigenza di non tenere più presente il parametro dell’inflazione e di passare a quello della produttività.
Recentemente ci sono stati gli episodi legati ai rinnovi dei contratti degli statali e della sanità, uno rinnovato con solo il 50% e poco più del consenso, il secondo non rinnovato per il no del 50% e poco più. Segnali di un malessere profondo?
Segnale, direi, di un atteggiamento estremamente conflittuale di alcune organizzazioni sindacali, principalmente la Cgil e la Uil. La Cisl si è distinta per cercare delle soluzioni, la Cgil e la Uil hanno assunto un atteggiamento di chiusura legato a un approccio politico e non favorevole al lavoro.
Perché ogni volta che si parla della strategia della Cgil si afferma che è un atteggiamento politico? Non può essere semplicemente un diverso punto di vista sindacale?
Perché altrimenti non si capirebbe perché si comportano così. Io spero che sia un atteggiamento politico, perché non lo condivido, ma lo capisco. Altrimenti sarebbe solo il rifiuto di un accordo che porterebbe nelle tasche dei lavoratori 180 euro in più al mese. Si può avere di più, è vero, ma non è detto che domani ci si riesca.
Capone, l’Ugl ha avuto vantaggi dal fatto che il paese adesso è guidato dal centro destra?
L’Ugl no, ne hanno avuto vantaggi le fasce più deboli del paese, perché le richieste dell’Ugl hanno trovato migliore ascolto.
Ma nella gestione quotidiana la maggiore vicinanza non vi ha aiutato?
Proprio no. Un esempio per tutti. Questo governo ha varato la riforma delle pensioni con quota 100, che è una nostra richiesta. Ma è dal 2017 che avanziamo questa proposta. Non è nata con il centro destra.
Massimo Mascini
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