Carlo Rovelli: «La scuola di Valditara? No ai localismi, il futuro è globale»

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di Carlo Rovelli

Il fisico interviene nel dibattito sulle nuove linee guida per le classi del primo ciclo. «I nostri figli vivranno in un pianeta globale, apriamoli al mondo attraverso la storia»

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In una intervista di qualche giorno fa, il ministro Valditara ha parlato delle nuove Indicazioni nazionali per il primo ciclo, cioè i nuovi programmi, illustrandone alcune linee generali, e ha invitato a un «grande dibattito» su queste proposte. Accolgo volentieri l’invito, con una breve riflessione.

Ho simpatia per diverse delle idee che ho ascoltato, in particolare la proposta di dare un ruolo maggiore alla musica e alla letteratura, e non vedo nulla di male in un po’ di latino. Mi aggiungo però alle voci già alzate per criticare l’idea di privilegiare «la storia d’Italia, dell’Europa, dell’Occidente», e concentrare l’attenzione sui «popoli italici», e su «origini e le vicende dell’antica Grecia e di Roma, le loro civiltà, i primi secoli del Cristianesimo».




















































Il ministro ha presentato questa scelta come un modo per non «caricare [la storia] di sovrastrutture ideologiche». Al contrario, concentrare la storia su alcuni momenti del passato rivela una forte sovrastruttura ideologica: è caratteristico di ogni ideologia cercare di costruire identità andando a pescare eventi del passato per definirsi e riconoscersi. Lo fanno spesso i Paesi giovani che hanno bisogno di inventarsi o di scegliersi un’identità. Lo abbiamo fatto nel recente passato anche noi. Vedo piuttosto due ragioni per evitare queste selezioni identitarie.

La prima è che l’intelligenza e la capacità di comprendere il mondo aumentano con l’apertura e diminuiscono con chiusure come queste. I problemi dell’umanità sono globali, le comunicazioni sono globali, l’economia, nonostante le guerre di tariffe, è e rimarrà globale. I nostri figli avranno un futuro dove saranno in contatto continuo e sempre più stretto con uomini e donne di altri continenti. L’Europa è una piccola minoranza nel pianeta, e anche in Europa molti Paesi non si riconoscono in queste scelte limitate. La mia generazione, in Italia, ha studiato «la storia» come se questa fosse la vicenda di un mitico Occidente greco-romano-cristiano-rinascimentale-europeo. Chi della mia generazione ha avuto modo di vivere altrove si è dovuto rendere conto di quanto unilaterale e miope fosse questa lettura del passato. In molte parti del mondo, saggiamente, lo sforzo nell’educazione va nella direzione contraria: aprire i giovani e i giovanissimi il più presto possibile alla ricchezza e alla complessità del mondo, alle idee delle culture che nella storia si sono sempre influenzate e intersecate e oggi contribuiscono insieme alla modernità. Se educhiamo i nostri figli a pensare in termini locali anziché globali, a non riconoscere le idee degli altri, li prepariamo a fare, nel mondo in cui vivranno, la figura dei cretini.

Mi viene in mente il racconto di un amico sui suoi nonni, cresciuti in una piccola valle delle Prealpi: il giorno in cui, già anziani, sono usciti per la prima volta dalla loro valle scendendo di qualche chilometro, e per la prima volta hanno visto una cittadina di pianura, hanno esclamato «mondo, come te si grando!
». Vogliamo educare così i nostri figli?

Ma c’è una seconda ragione, più grave, per insegnare una storia più ampia. Il pianeta affronta una fase delicata, l’evoluzione degli equilibri economici e l’indebolimento relativo dell’impero americano stanno facendo crescere una distruttiva e pericolosa conflittualità. L’umanità ha due strade alternative davanti a sé: la prima è rinchiudersi in identità locali, caparbiamente in difesa di se stesse, incapaci di comprendersi ed accettarsi, e in crescente conflitto, armate l’una contro l’altra. Questa strada, in un mondo sempre più armato e in bilico sul baratro di una guerra nucleare, ci porta a un XXI secolo ancora più devastante del XX, quando in due guerre mondiali abbiamo fatto 100 milioni di morti ammazzati da noi stessi. L’altra strada è imparare a riconoscerci, intorno al pianeta, come una comunità unica, ricca di differenze, ma unita dal comune destino.

Insegnare ai nostri figli l’identitarismo della storia locale, anziché aprirli alla splendida storia dell’umanità intera, è spingere per la prima strada. I conflitti più sanguinosi sono sempre nutriti da narrazioni opposte, che crescono su narrazioni divergenti del passato. Poche cose sarebbero efficaci nel diminuire la voglia di fare la guerra quanto spingere i due gruppi in conflitto a studiare i libri di storia degli altri, leggere i giornali e ascoltare le televisioni della parte opposta. Ci stupiremmo tutti nell’ascoltare con serietà storie diverse. Nutrire narrazioni locali è adoperarsi per un futuro di conflitti e dolore, invece che un futuro di speranza.

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Insegniamo invece ai nostri figli a riconoscersi in Omero come nel Mahabharata, in Shakespeare come in Confucio, in Cristo come in Buddha, in Tolstoj come nei racconti africani, in Saffo come in Murasaki. A vedere le somiglianze fra le piramidi del Messico e quelle in Egitto, fra le Upanishad e il pensiero greco, fra l’egualitarismo dei popoli nativi americani e la Rivoluzione francese. A cercare di comprendere perché certe parti del mondo, come la nostra, hanno avuto una storia più sanguinosa di altre. A ricordare i nostri antenati tutti usciti dall’Africa, curiosi di scoprire il pianeta. Prepariamo i nostri figli a costruire un mondo pronto a lavorare insieme sui problemi comuni, ad apprezzare le differenti culture e vivere insieme imparando l’uno dall’altro. Facciamo crescere già nelle scuole per i più piccoli, le radici di un futuro condiviso, e migliore.
CARLO ROVELLI

22 gennaio 2025

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