Meno efficienza e più disparità: svelati gli inganni della riforma

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Le ragioni più frequentemente invocate dai paladini dell’autonomia differenziata sono sostanzialmente due. La prima si appella alla maggiore efficienza di un assetto in cui gli amministratori locali si assumono la responsabilità, politica e finanziaria, delle proprie scelte. La seconda sostiene che le differenze territoriali nella fruibilità dei servizi pubblici non aumenterebbero con l’autonomia, semmai accadrebbe il contrario.

Abbiamo già discusso di quanto le argomentazioni basate sull’efficienza siano fumo negli occhi. Nella legge Calderoli non vi è alcun elemento che incoraggi gli amministratori locali alla responsabilità, a partire dalla scelta di finanziare l’autonomia con una parte del gettito dei tributi statali. La possibilità per Zaia e Fontana di disporre di una quota del gettito dell’Iva o dell’Irpef equivarrebbe a una vera e propria licenza a spendere, senza alcuna necessità di tassare gli elettori locali. Anche la Corte Costituzionale, nella sentenza 192 del 2024, ha sottolineato come la legge Calderoli determini un’asimmetria fra potere di spendere (decentrato) e potere di tassare (accentrato) con conseguente rischio di irresponsabilità finanziaria delle Regioni.

Ci soffermiamo ora sulla tesi secondo la quale l’autonomia differenziata non comprometterebbe ulteriormente l’equità orizzontale fra cittadini. Il mantra che viene ossessivamente ripetuto è che le differenze nei servizi pubblici fra le varie aree del paese esistono già e non sono quindi imputabili all’autonomia differenziata. L’applicazione della legge Calderoli, con la sua attenzione ai Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), tutt’al più agirebbe nella direzione di riequilibrare la situazione attuale. È innegabile che vi siano disparità estremamente ampie nella tutela dei diritti civili e sociali fra Nord e Sud. Queste differenze però si concentrano proprio nelle funzioni in cui lo Stato ha ceduto il passo al decentramento.

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Esempio emblematico è la sanità, progressivamente trasferita alle Regioni dagli anni novanta del secolo scorso. Questo processo ha determinato un sistematico sotto-finanziamento del servizio sanitario nelle regioni più povere e l’accumularsi di disavanzi, che hanno poi condotto a tagli draconiani dell’offerta ospedaliera e del personale attraverso i noti «piani di rientro». La mobilità sanitaria, fenomeno pressoché sconosciuto prima del regionalismo sanitario, fornisce la cifra delle diseguaglianze nell’accesso alle cure ospedaliere: un paziente meridionale ogni dieci (addirittura uno ogni cinque in Calabria) è costretto a ricoverarsi fuori regione, prevalentemente in strutture private localizzate in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto. Si tratta non a caso delle tre Regioni hanno già compiuto, con i precedenti governi, passi formali per ottenere l’autonomia differenziata. I Lep alla Calderoli non rappresentano l’antidoto alla crescita delle diseguaglianze.

Lo dimostra la linea sin qui seguita dal Comitato Cassese e dagli altri organismi all’apparenza tecnici, ma in realtà intrisi di conflitti di interesse, che lavorano al servizio dell’autonomia. Per restare sulla sanità il Comitato Cassese ha stabilito che i Lep già esistono poiché coincidono con i livelli essenziali di assistenza (Lea) applicati da oltre venti anni. Non possiamo attenderci nulla di buono per il futuro, visto che l’applicazione dei Lea non ha finora avuto alcun risvolto finanziario e non ha impedito le discriminazioni territoriali nell’accesso alle cure. L’autonomia differenziata, con la regionalizzazione del personale sanitario richiesta da Veneto e Lombardia, non potrà che rendere questi divari più estremi.

La direzione del nesso causale fra autonomia e diseguaglianza va in realtà ribaltata rispetto al ragionamento proposto dai fautori del decentramento. In un sistema duale quale quello italiano è impensabile che l’autonomia possa funzionare come strumento per ridurre le diseguaglianze. Semmai la preesistenza di disparità economiche fra le varie aree del paese avrebbe dovuto impedire – già in passato – di decentrare la tutela di diritti costituzionalmente garantiti, come quello alla salute, legandoli all’estrema variabilità delle condizioni locali. L’autonomia differenziata sarebbe un perseverare in questo errore, il sacrificio di altre funzioni essenziali – come l’istruzione – sull’altare degli interessi elettorali di pochi.



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