Più poltrone che dipendenti, ecco i “carrozzoni” d’Italia

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ROMA “Da Rimini a Crotone: migliaia di società pubbliche piene di debiti e poltrone. E ora i crac (da oltre mezzo miliardo di euro) li paghiamo noi”. E’ uquesto il titolo dell’ultimo Dataroom di Milena Gabanelli e Andrea Priante pubblicato sul sito del Corriere della Sera. “Dataroom” si occupa delle partecipate pubbliche in Italia con particolare riferimento a quelle che si sono rivelate soltanto dei “carrozzoni” o che sono fallite: nell’elenco di “Dataroom” figurano anche l’Amaco di Cosenza e la Soakro di Crotone.

I dati

«I dati diffusi nel 2024 dal ministero dell’Economia e che guardano fino a tutto il 2021 – si legge – ci dicono che le partecipate sono 5.081, hanno come soci 39.657 enti pubblici e il 68% è in mano ai Comuni. Ma mille di queste società, in realtà, sono in liquidazione o sottoposte a procedure concorsuali che quasi sempre sono l’anticamera del fallimento e che nel 70% dei casi si trascinano per almeno 5 o 10 anni… A funzionare regolarmente, rimangono 3.946 partecipate. E non tutte se la passano bene. Se escludiamo quelle create più di recente (per le quali è prematura una valutazione) e quelle che non rientrano nei “paletti” del Testo unico sulle società a partecipazione pubblica, ne restano poco meno di 3mila: il 41% negli ultimi 5 anni ha avuto almeno un bilancio in perdita, il 7,6% ha i conti stabilmente in rosso, mentre il 22% ha più amministratori – e quindi poltrone da spartire – che dipendenti; e una su tre fattura meno di un milione di euro, considerata la soglia limite. In generale, il 39% delle partecipazioni non rispetta le condizioni per le quali, da qualche anno, la legge impone agli enti di sbarazzarsene – chiudendo la società o cedendo le quote – o almeno di avviare dei seri piani di risanamento».

Crac milionari

«Le regole che spingono a “razionalizzare” le aziende in sofferenza – ricorda “Dataroom” – sono state introdotte nel 2016 con l’obiettivo di ridurre il rischio che le crisi si trasformino in voragini finanziarie. Infatti le aziende e i privati che avanzano soldi dalle partecipate fallite sono migliaia». Un esempio citato da “Dataroom”: «Nel 2023 fallisce, con 20 milioni di debiti, la Amaco che si occupa del trasporto pubblico a Cosenza. Perché accade questo? Ciascuna fa storia a sé, anche se spesso salta fuori che le partecipate finite in default erano sotto-capitalizzate e usate dalla politica per distribuire poltrone e attirare consenso elettorale. Inoltre, se oggi il socio è tenuto ad accantonare l’equivalente delle perdite, in passato i sindaci utilizzavano queste società per offrire servizi “dirottando” su di esse i buchi di bilancio, così da tenere al sicuro le casse del Comune a discapito dei creditori. Infatti, per le aziende pubbliche valgono le stesse regole di qualunque Spa o Srl: se finisce gambe all’aria non si può pretendere di usare il patrimonio dei soci (in questo caso degli enti pubblici) per ripianare i debiti. Tradotto: quando i soldi finiscono, chi ancora dev’essere pagato rimane col cerino in mano. Ma la novità è che d’ora in avanti quel cerino potrebbe finire nelle mani dello Stato».

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Il caso Soakro

“Dataroom” della Gabanelli prosegue: «Per capire come una partecipata possa sprofondare nei debiti e cosa accade ai creditori, prediamo la Soakro Spa, azienda fondata da Provincia e Comuni della zona per distribuire l’acqua nelle abitazioni del Crotonese. Nel 2016 fallisce lasciando debiti per 50,7 milioni di euro nei confronti di centinaia tra dipendenti e fornitori. La procura di Crotone apre un’inchiesta e scopre che fin dalla sua nascita, nel 2008, è sottocapitalizzata (in “pancia” ha appena 107mila euro) e quindi non può fare investimenti. È gestita in modo assurdo: la partecipata compra l’acqua da un’altra società pubblica e la rivende ai cittadini a prezzi più bassi e non ha un’anagrafe dei clienti, col risultato che la metà dei residenti non versa il dovuto e molti neppure ricevono le bollette. Tra chi utilizza i servizi a sbafo, ci sono gli stessi soci pubblici nei confronti dei quali l’azienda fatica a riscuotere milioni di euro. Non versa imposte per 1,5 milioni, comprese le ritenute fiscali dei dipendenti, ma in compenso distribuisce lavori per 490mila euro ad aziende «amiche» senza bandi di gara, e assegna consulenze «ingiustificate» per 131mila euro. E in tutto questo, i vertici – nominati dalla politica – riescono pure ad assegnarsi 71mila euro di premi aziendali. A settembre 2024 il tribunale condanna per bancarotta 14 tra rappresentanti legali, amministratori e componenti degli organismi di controllo della partecipata. Ma intanto, visto che gli abitanti non possono rimanere senz’acqua, i Comuni creano un nuovo consorzio, di fatto una copia di Soakro, che pare sia già in rosso per decine di milioni. Nel pantano della Soakro ci finisce anche la Salvatore Mazzei Srl, che ha svolto 102.772 euro di scavi e opere in calcestruzzo per conto della partecipata crotonese, senza mai vedere un soldo. Sia il tribunale che gli organi fallimentari riconoscono che quella somma le spetta di diritto, ma a giugno 2021 il curatore fallimentare dice che non ci sono risorse per far fronte alle richieste dei creditori. Tutto come da copione. Stavolta però il titolare dell’impresa edile non ci sta a tenersi quel cerino in mano, e si rivolge alla Corte europea per i diritti dell’uomo chiedendo sia lo Stato a pagare il debito «non solo perché Soakro è un’articolazione organizzativa della Pubblica amministrazione, ma anche perché gli enti locali, con la loro condotta, hanno provocato la crisi». Nel 2022 la Corte europea scrive al nostro governo. Il senso del messaggio: ci sono diversi precedenti legali, meglio che troviate un accordo altrimenti l’Italia rischia una pesante condanna. Capita l’antifona, il governo si impegna a saldare il debito contratto da Soakro con la Salvatore Mazzei Srl. Non l’ha ancora fatto, ma lo farà». La Mazzei Srl – prosegue “Dataroom” – non è sola: sono centinaia i ricorsi presentati a Strasburgo dai creditori delle società partecipate, e in quindici casi il nostro governo ha già dovuto concludere l’accordo proposto dai giudici. In generale, è presto per dire come andrà a finir, ma se la Corte dovesse dare loro ragione i debiti dovranno essere ripianati con denaro pubblico. A marzo di quest’anno il Comitato dei ministri (l’organo che vigila sull’esecuzione delle sentenze della Corte) ha detto: “Il fatto che lo Stato scelga una forma di delega in base alla quale alcuni dei suoi poteri sono esercitati da un altro organismo non è sufficiente per rinunciare alla propria responsabilità per i debiti di tale organismo delegato”. L’avvocato Francesco Verri – che ha incassato la vittoria della Mazzei e ha in ballo altri 200 ricorsi per un valore di mezzo miliardo – è convinto di spuntarla: “La nostra è una sorta di gigantesca class action per tutelare i diritti fondamentali di migliaia di creditori incolpevoli. E ci sono dei precedenti: se le pubbliche amministrazioni affidano i servizi di interesse pubblico ad aziende partecipate, lo Stato è responsabile dei debiti e li deve pagare al loro posto” ».



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