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Il sistema pensionistico italiano, più di altri, sconta il peso delle cosiddette baby pensioni, ovvero assegni che sono stati concessi nel corso degli scorsi anni a soggetti ancora molto giovani e in piena età da lavoro (almeno rapportando i dati dell’epoca con quelli di oggi). C’è stato un tempo in cui in Italia si poteva andare in pensione a poco più di 39 anni, con l’età che in alcuni specifici casi poteva scendere anche di molto. Il frutto di queste scellerate scelte politiche si ripercuotono ancora oggi sulle Casse dello Stato, visto e considerato che sono quasi 400mila i cittadini che ricevono l’assegno di previdenza da più di 40 anni. Si tratta di una spesa altissima, soprattutto considerando l’aumento dell’aspettativa di vita, con l’Inps che in passato aveva stimato un costo pari a 130 miliardi di euro a valori attuali. Per il recente report del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali, il prezzo da pagare è di 9 miliardi di euro l’anno.

Chi sono i baby pensionati

Nel recente bilancio sul sistema pensionistico italiano elaborato dal professor Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali, emerge che i baby pensionati in Italia siano, come detto, quasi 400mila. Si tratta di un gruppo costituito da persone andate in media in pensione a 36,4 anni se uomini e a 39,5 se donne. Una grande differenza rispetto a quanto avvenuto più di recente, nel 2023, con l’età per la pensione di vecchiaia arrivata a 67,5 anni, a 615,5 anni per le anticipate e i prepensionamenti, a 55,7 per quelle di invalidità e a 77,7 anni per le prestazioni ai superstiti degli uomini del settore privato.

Una netta differenza, figlia di scelte sbagliate del passato che oggi fanno ancora sentire la loro eco. Nel settore pubblico, per esempio, era un tempo possibile andare in pensione con pochissimi contributi versati. Nel 1973 il governo del democristiano Rumor decise di concedere le pensioni pubbliche alle dipendenti con figli dopo solo 14 anni, 6 mesi e un giorno di servizio, includendo nel conteggio anche i riscatti di maternità e l’eventuale laurea. Per gli uomini, invece, la pensione arrivava dopo 19 anni, 6 mesi e 1 giorno di lavoro, mentre nel caso degli enti locali il diritto all’assegno pensionistico arrivava a 25 anni per gli uomini e 20 per le donne. All’età precoce di pensionamento va aggiunto che, molto spesso, gli assegni spettanti erano quasi pari alla retribuzione percepita nel corso dell’attività lavorativa.

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Quanto costano le baby pensioni

Le baby pensioni rappresentano oggi un forte elemento di squilibrio per il sistema pensionistico italiano, non solo sul piano sociale ma anche e soprattutto su quello economico. Secondo lo studio del professor Alberto Brambilla, i baby pensionati costano allo Stato italiano circa 9 miliardi all’anno e, in molti casi, ricevono l’assegno da ben 38 anni avendone lavorati soltanto 15.

Per l’Inps, che solo qualche anno aveva fornito un’accurata relazione sul tema, i beneficiari delle baby pensioni sono stati in totale 256mila, con 186mila ancora vigenti (149mila sono donne). Il costo annuale, con questi dati, era pari a 2,9 miliardi di euro, mentre l’età media di inizio della pensione era di circa 42 anni per le donne e 45 per gli uomini. Quanto agli anni di contribuzione, la media era di 22 per le donne e 25 per gli uomini. Il valore medio delle pensioni era di 1.200 euro al mese, con la spesa totale ai valori attuali stimata dall’Inps almeno pari a 130mila euro.

Le implicazioni future

Così come sostenuto da Brambilla, i conti della previdenza dovrebbero reggere anche nel periodo compreso 2035-2040, ovvero quando la maggior parte dei baby boomer sarà pensionata.

A risentire maggiormente del disastro attuato in passato saranno soprattutto i più giovani. Per limitare questo impatto, per il professor Brambilla è necessario applicare puntualmente degli stabilizzatori automatici dell’adeguamento dell’età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita. Inoltre c’è l’esigenza di bloccare l’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, prevedendo sempre una riduzione per donne madri e precoci e un superbonus per chi decide di rimanere a lavoro fino a 71 anni.





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