DAL LIBANO/ “100mila sfollati, famiglie senza cibo e bambini traumatizzati, qui la tregua non si vede”

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Un Paese che sta cercando di risollevarsi dal punto di vista istituzionale, ma che ha bisogno di sussidi e aiuti anche solo per mangiare. Per questo, racconta Francesca Lazzari, responsabile-Paese di AVSI per il Libano, tra le attività di sostegno alla gente c’è ancora la distribuzione dei viveri, spesso in zone dove si vedono ancora agire i soldati israeliani. La tregua è continuamente violata e i militari non danno l’impressione di essere sul punto di andarsene. Eppure, a 60 giorni dal cessate il fuoco, che scade nel fine settimana, dovrebbero lasciare il Sud del Libano. Netanyahu, però, avrebbe già chiesto 30 giorni di proroga.



Secondo Save the Children, un terzo dei bambini in Libano non ha da mangiare o quasi. Si parla di ricostruzione del Paese, ma il punto di partenza è questo: manca il cibo?

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La crisi del Libano non è dovuta solo alla guerra. Rispetto all’ultima guerra del 2006, c’è una differenza fondamentale: allora il Paese stava bene, oggi è da cinque anni in una profonda crisi economica e finanziaria. C’è stata la crisi dovuta all’esplosione al porto di Beirut, il colera e, dall’ottobre 2023, la guerra, che negli ultimi mesi si era estesa su scala nazionale. L’incidenza del conflitto ha aumentato le vulnerabilità in un Paese che già prima non aveva le capacità di far fronte ai bisogni delle persone. Una situazione sicuramente molto critica.



Le persone e le famiglie che incontrate tutti i giorni nella vostra attività sono in queste condizioni? Non hanno da mangiare?

È così, tra le fasce più vulnerabili della popolazione ci sono famiglie che non hanno le risorse per far fronte al proprio fabbisogno. Molti vivono di sussidi economici, anche semplicemente per nutrirsi.

Sussidi che ricevono da chi?

Dalle organizzazioni umanitarie. Lo Stato, anche se ora è stato eletto un presidente e avrà un governo, non ha le risorse. Fa fatica a pagare il personale degli enti pubblici, dei ministeri.

Con la tregua molte delle persone sfollate sono tornate nel loro luogo di origine. Cosa hanno trovato?


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La maggior parte degli sfollati è rientrata, ma ce ne sono ancora 100mila che, per ragioni differenti, non possono rientrare. Chi lo ha fatto, se fortunato, ha trovato ancora la casa in piedi e un lavoro. In tanti, invece, l’hanno trovata distrutta, rovinata o rasa al suolo. In certi villaggi non c’è più nulla: anche se alcune abitazioni non sono state colpite, non sono più connesse all’acqua, all’elettricità, non ci sono più infrastrutture né servizi, perché danneggiati o completamente distrutti.

Ma la gente è riuscita a rientrare nei comuni in cui risiedeva?

In molti villaggi, soprattutto nel Sud del Paese, è difficile il rientro, soprattutto se, aprendo il rubinetto, non esce l’acqua, se non puoi utilizzarla per irrigare il campo che coltivavi perché tutto il sistema idrico della zona è stato bombardato. C’è anche chi non è tornato perché non ha mezzi e chi non lo fa perché non si sente ancora sicuro. Nel Sud del Paese ci sono sempre le truppe israeliane, soprattutto nelle zone più al confine. I bombardamenti, gli attacchi a edifici, ad auto, continuano. Ce n’è stato uno ieri, ce n’è stato un altro stamattina. Le vittime si contano ancora.

Gli israeliani, quindi, sono ancora ben presenti nella zona? Avrebbero chiesto 30 giorni di proroga prima di andarsene.

Ci sono aree che vengono presidiate dagli israeliani. Non hanno abbandonato il territorio. I 60 giorni della tregua scadono a fine settimana e non c’è nessuna certezza che entro sabato si ritireranno.

Com’è cambiata la vostra attività da due mesi a questa parte?

La nostra attenzione è rivolta al Sud del Paese, soprattutto al distretto di Marjayoun, un’area che subisce il conflitto dall’ottobre 2023 e che non abbiamo mai abbandonato. Stiamo accogliendo tutti quelli che vogliono rientrare nelle proprie case ma hanno difficoltà a farlo. Lunedì abbiamo organizzato una grossa distribuzione di beni di prima necessità a oltre 700 famiglie. È una zona ancora a rischio: i colleghi mi hanno raccontato che vedevano in lontananza i razzi che cadevano e le truppe israeliane che si muovevano sul terreno.

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Le attività economiche non hanno ancora ripreso a funzionare?

Il mercato, le attività commerciali non hanno ancora completamente riaperto, gli agricoltori non possono tornare a coltivare i loro campi. Noi diamo un supporto temporaneo, ma non è certo una soluzione a lungo termine. È quello di cui c’è bisogno in questo momento.

Dove vivono le famiglie che hanno la casa distrutta o comunque fortemente danneggiata?

Alcuni la riparano ricorrendo a soluzioni di fortuna. La prima cosa che si rompe sono i vetri, quindi le finestre, e, visto che non hanno risorse per ripristinarle, usano teli di plastica per cercare di coprirle ed evitare che entri il freddo. Per il resto ci sono rifugi pubblici dove stanno trovando riparo 10mila persone. Altri si appoggiano ai familiari, creando così situazioni di sovraffollamento. Dipende veramente dalle capacità di adattamento e dalle risorse che ogni famiglia ha.

La presenza dello Stato si incomincia a intravedere? L’esercito libanese è attivo sul territorio?

Uno dei punti della tregua prevede la presenza dell’esercito nel Sud del Paese. I militari sono stanziati nelle aree più al confine. D’altro canto, il nuovo governo si sta formando in questo momento. Eleggere il presidente e scegliere il primo ministro è già stato un passo avanti. Bisognerà vedere cosa esce dalle consultazioni che sono in corso, se uscirà un esecutivo in grado di prendere in mano le redini del Paese. Ci sono segnali positivi, ma c’è bisogno di tempo.

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Il Libano però ha bisogno di un aiuto esterno per riprendersi. La comunità internazionale è pronta?

La comunità internazionale da anni, dall’inizio della crisi economica, chiede riforme, che ora, con un presidente e un governo, forse il Libano sarà in grado di realizzare: per questo si spera che poi gli aiuti tanto promessi arrivino veramente.

Hezbollah continua a essere un fattore nella società libanese? Ha subito l’attacco degli israeliani dal punto di vista militare, ma rimane attivo nel Paese?

È un partito politico, ha eletti in parlamento, è una comunità. Ha avviato un piano di supporto alle famiglie colpite dal conflitto, con aiuti economici per chi ha perso la casa o ha i mobili distrutti. Ha cominciato subito dopo il cessate il fuoco.

Nel Paese, però, non c’è bisogno solo di aiuti materiali. Non basta agire in questa direzione?

C’è bisogno di supporto psicosociale. La gente è traumatizzata da oltre un anno di conflitto, i bambini come gli adulti. Abbiamo un team di psicologi che svolgono terapia di gruppo o counseling individuale con i minori traumatizzati dal conflitto, aiutando i genitori ad acquisire le parenting skills, sostenendoli, insomma, nella gestione delle emozioni. I genitori vivono un momento complesso: nel conflitto precedente erano loro i minori, ora sono padri e madri di bambini a loro volta traumatizzati, perché vedono la loro casa distrutta o perché hanno visto le bombe cadere al loro fianco.

Sono bambini che, tra l’altro, non sanno più cosa vuol dire andare a scuola.

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Le scuole, soprattutto nelle aree di confine, sono chiuse da oltre un anno. E alcune non si sa se riapriranno. Altre ormai sono state completamente distrutte. Le performance scolastiche di questi minori sono peggiorate: c’è il rischio che perdano l’anno. Noi per questo facciamo attività per coloro che seguono la scuola al mattino, da remoto, mentre al pomeriggio aiutiamo a fare i compiti e svolgiamo attività di recupero.

(Paolo Rossetti)

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