78 Days è stato proiettato al Trieste Film Festival nella sezione Wild Roses, dedicata quest’anno a registe serbe. Il film ha catturato l’attenzione generale non solo per la drammaticità del suo tema, lo sguardo di una bambina di fronte al bombardamento Nato del territorio serbo nel 1999, ma anche per la radicalità e l’originalità della sua forma narrativa.
Per approfondire tutti i temi, stilistici, storici, personali, di 78 Days, abbiamo intervistato la sua talentuosa regista, Emilija Gašić.
78 Days è ambientato in un contesto storico molto preciso. Se quel tragico periodo è il movente, protagonista del film è la famiglia, oltre che lo stile narrativo.
Tutto nasce dall’aver ritrovato a casa delle cassette girate in super 8. Erano un privilegio negli anni ‘90, non ce l’aveva quasi nessuno questo tipo di macchina da presa. Io, all’epoca, non avevo il permesso di toccarle, ero una bambina. Le ho trovate e viste durante il periodo della pandemia, quando siamo stati nuovamente rinchiusi in casa senza poterci muovere. Questi filmini familiari sono stati il mio motivo di ispirazione.
La domanda che tutti ci siamo fatti in sala, sui titoli di coda con i nomi degli attori, è stata: ma allora 78 Days non erano veri super 8?
È una domanda che mi fa molto piacere sentire. Vuol dire che abbiamo fatto un buon lavoro.
Oggi vivi a New York, ma, per il tuo lungometraggio d’esordio, hai raccontato una storia profondamente radicata nella tua nazione d’origine. È il passato che non passa, il bisogno di confrontarsi con le proprie radici o solo un buon soggetto?
Io penso sia naturale gravitare intorno alle proprie radici, specialmente per il primo film. Molti registi dicono che, per il primo lungometraggio, ci si prepara tutta la vita. Il passato è ciò che ti rende la persona che sei. Quindi, per me, era assolutamente logico scegliere questo argomento: qualcosa che ho vissuto, che mi ha plasmato. Credo anche sia naturale, quando raggiungi i 30 anni, guardare indietro alla tua infanzia e cercare di dare un senso a quel che è accaduto. Quindi, quel conflitto, non solo era un buon soggetto, ma creava connessioni particolarmente profonde.
C’era qualche modello cinematografico a cui hai pensato concependo 78 Days e poi durante le riprese?
Soprattutto film horror, perché sono tradizionalmente collegati all’idea dei filmati ritrovati. Pellicole come The Blair Witch Project, per esempio. Anche lì all’inizio tutti pensavano fosse qualcosa di reale. Devo dire, però, che questo tipo di effetto non era il mio primo obiettivo. Io pensavo che sarebbe stato interessante mescolare qualcosa che è tradizionalmente connesso all’horror, il filmato ritrovato, e collegarlo a un racconto di formazione, ambientato durante la guerra. Mi piace mescolare i generi. Spero di farlo anche in futuro.
Il meccanismo stilistico e narrativo di 78 Days è davvero ingegnoso. Io stesso ho creduto di vedere dei veri super 8. Cosa e quanto è rimasto di quegli originali film di famiglia da cui sei partita?
In 78 Days non abbiamo riutilizzato nulla dei miei super 8. Tutto è stato ricreato. Sono stata irremovibile nel voler rifare ogni cosa, perché pensavo si sarebbe potuta vedere la differenza tra i vecchi filmati e quelli rigirati. Temevo, anche, che sarebbe diventata una cosa troppo personale. Non ho mai avuto intenzione di fare un film su me stessa. Ho sempre voluto affrontare ciò che tutta la mia generazione ha vissuto. Mentre scrivevo la sceneggiatura, ho fatto un questionario anonimo online che è stato molto utile. Hanno risposto circa 200 persone. C’erano domande anche molto ingenue: cosa indossavi, che musica ascoltavi, dov’eri il 24 marzo 1999. Perché quella data è indelebilmente impressa nella nostra mente: è stato l’inizio del bombardamento. Tutti ricordavano dov’erano e cosa stavano facendo.
In 78 Days, ci sono anche scene che ho preso direttamente dalle mie videocassette. Per esempio, l’inizio del film, quando la bambina dice quanto si vede brutta. Ho trovato un segmento di 12 minuti in cui parlo con mia sorella del mio aspetto. È una cosa molto infantile e molto tipica delle bambine. E poi un’altra sequenza in cui le sorelle si lanciano della roba dalla finestra. Un tema importante di quel periodo era che stavamo tutti assieme e si cercavano dei modi per divertirsi, in momenti in cui non c’era molto da fare. E poi sono entrate in 78 Days alcune altre inquadrature, come gli aerei che ci volavano sulla testa. Sono state le visioni più inquietanti per me. Hanno sbloccato tanti ricordi.
Sono curioso di sapere qual è stata la reazione della tua famiglia quando ha visto 78 Days.
Hanno seguito il film attraverso i vari Festival. Ero molto nervosa riguardo la loro reazione, perché, pur se 78 Days non è strettamente autobiografico, ci sono tanti elementi personali che lo collegano alla mia famiglia. Per fortuna il film è piaciuto davvero molto. Ne sono particolarmente felice, anche per il loro punto di vista di non addetti ai lavori. Si sono legati a 78 Days e hanno pensato che fosse divertente e triste allo stesso tempo. Sono stati i complimenti più importanti.
Come hai selezionato il cast per 78 Days?
È stato un processo molto lungo, mi ci è voluto più di un anno. Sapevo ci avrei messo un po’ prima di trovare le ragazze che cercavo, perché volevo parlassero con un accento specifico dell’area in cui stavo girando, da dove venivo. Per me questo era molto importante. Ho iniziato con un casting su Facebook. Prima ho provinato qualcuno online, poi abbiamo iniziato a incontrare le persone. Alla fine, ho deciso di andare in ogni piccola città del posto. Volevo essere sicura di considerare tutte le possibili scelte, prima di prendere la decisione finale che, in fondo, è stata anche istintiva. Queste cose, però, richiedono tempo. Molto tempo.
Come hai lavorato con le giovani attrici del film? C’è stato anche qualcosa d’improvvisato con loro?
Per le due ragazze e le due bambine è stato il primo film. Avevano partecipato solo ad alcune esperienze amatoriali. Ho deciso che non avrei fatto imparare le battute a memoria alle due bambine. Il problema con i bambini piccoli è che diventano subito bravissimi e, quindi, poi, risultano molto meccanici. Quello che ho fatto è stato far capire loro qual era il senso del film, man mano che lo stavamo costruendo. Ho avuto il privilegio di poter utilizzare la casa dei miei nonni 24 ore su 24. Le quattro ragazze le abbiamo chiamate sul set un mese e mezzo prima di cominciare, facendo indossare loro i vestiti del tempo. Si sono ambientate nella casa, hanno scelto le loro stanze, hanno passato del tempo insieme. Con le due ragazze più grandi abbiamo letto la sceneggiatura, invece con le più piccole abbiamo semplicemente dato loro delle idee su cui poi potessero improvvisare. Sul set facevamo una ventina di ciak. Ogni volta cambiava qualcosa, giusto per rendere tutto molto naturale, perché doveva essere quella l’idea, alla fine, il fatto che fosse più o meno un documentario. Quindi c’è stata molta improvvisazione da parte loro.
Questa forte componente di realtà nel descrivere quanto accaduto è solo un espediente narrativo o risponde a un’esigenza profonda?
Ho fatto tutto istintivamente. Sono subito stata ispirata dai nastri di famiglia, poi, quando ho iniziato a fare ricerche, mi è piaciuto guardare anche il materiale home video di altre persone. E ho capito che c’è qualcosa di molto cinematografico in questo mezzo. Sapevo che volevo usarlo in qualche modo, ma non avevo idea se l’intero film sarebbe stato così. Una volta capito quale sarebbe stato l’argomento, per me aveva perfettamente senso che lo stile sembrasse incapsulare autenticamente quel tempo.
Qual è la tua memoria personale di quel conflitto nei Balcani?
Il mio ricordo personale ho cercato di trasmetterlo nel film. È stato un passaggio importante: una bambina di sette anni, che aveva appena iniziato la scuola, che si trovava in un momento di grande paura, ma anche di straordinaria unione familiare. Quindi un forte miscuglio di sensazioni. Tutti i parenti sono venuti e sono rimasti in quella casa di famiglia in cui ho girato il film. Rammento la paura, i momenti in cui pensavi che sarebbe finita. Non potevamo ovviamente prevedere l’arrivo degli attacchi aerei. Quando hai queste esperienze da bambino, trasferisci il vissuto su un piano diverso. Se parli con persone della mia generazione, ci saranno buone probabilità che ti raccontino i ricordi più positivi, perché erano bambini e perché così funziona il meccanismo di sopravvivenza. Ma, più approfondisci il discorso, magari anche in terapia, più parli di queste cose e più ti rendi conto di quanto hai nascosto sotto il tappeto. Dopo aver visto 78 Days, molte persone sono venute da me a dirmi quante cose avessero dimenticato. Ho pensato che fosse un bel modo per far vivere anche negli altri questa catarsi che ho sentito io mentre realizzavo il film.
Per te 78 Days è stato una specie di processo di catarsi?
Ci sono state effettivamente delle circostanze in cui ho sentito questo senso di catarsi. La prima è stata quella in cui ho trovato i super 8. Non sapevo che avessimo tutti quei filmati di quel periodo né mi ricordavo tutti quei momenti. Una seconda occasione di riconoscimento è stata quando ho fatto quel sondaggio online in cui volevo verificare in che modo la gente rievocava quel periodo storico. Il terzo momento è stato quando ho visto il film per la prima volta con il pubblico, a Palic. Ho potuto vedere le loro reazioni: risate, ma anche pianti.
Dalla tua distanza generazionale oggi, come hai ricostruito quegli avvenimenti attraverso 78 Days?
Quello che sentivo di voler dire riguardo quel conflitto è dentro 78 Days. Sono personalmente contraria a qualsiasi guerra. Penso che, in questo tipo di situazioni, a soffrire sia sempre la popolazione. Come vediamo anche oggi, in Ucraina e a Gaza.
C’è una memoria condivisa oggi in Serbia su quanto è accaduto?
Non posso parlare a nome di tutti i serbi, ma credo che a nessuno piaccia essere bombardato.
Immagino ci sia un sentimento di attrazione/repulsione nei confronti di quel conflitto. La necessità di parlarne per comprendere, ma anche la repulsione di fronte a quell’orrore.
In realtà non sento una gran necessità in Serbia di parlarne. Di film sul tema, per esempio, non ce ne sono molti, quattro o cinque. È stata la prima fonte che ho cercato. Forse la gente comincia a parlarne adesso. Credo che arriveranno altri film da parte della mia generazione che ha vissuto quel conflitto diversamente rispetto a chi ha gli anni dei miei genitori, coloro che hanno attraversato quella guerra con la semplice necessità di sopravvivere e pensare a come uscirne. Non hanno avuto il tempo di elaborazione, la giusta distanza da quanto accaduto. Penso che, in sostanza, la mia generazione stia iniziando a ricostruire quello che è successo.
Hai consultato qualche archivio nazionale?
Solo video di persone che conoscevo o che ho contattato, ma pochi davvero, perché non sono molti e la gente non sempre ha voglia di condividere. Qualcuno mi ha fatto vedere foto o mi ha raccontato la sua storia, ma non esiste un archivio nazionale di home video. Sarebbe fantastico se ci fosse. Ci sono archivi sulla Jugoslavia con molti materiali, ma gli home video sono qualcosa che le persone hanno nelle loro case. Nastri che di solito giacciono in una scatola da qualche parte su uno scaffale e nessuno pensa a digitalizzare. La stessa cosa è stato per me. Sarebbero rimasti in quella scatola se non fosse arrivato il Covid, che mi ha dato il tempo e l’occasione per fare una cosa del genere.
78 Days è un film molto originale, non solo all’interno del contesto cinematografico serbo. C’entra qualcosa il fatto che tu ormai da anni viva negli Stati Uniti?
Il progetto originario di 78 Days risale a molto tempo prima che io mi trasferissi negli Stati Uniti. Quando ancora studiavo in Serbia, mi chiesero di fare un esercizio di autoritratto per il primo anno di Accademia. Io non amavo stare di fronte alla telecamera, quindi quel che ho fatto è stato prendere dei vecchi video di miei compleanni e fare un montaggio, per poi aggiungerne uno alla fine, finto, del mio ventesimo. Durante quest’operazione, ho pensato che la resa sembrava molto cinematografica, pur essendo tutti vecchi filmati originali. Quest’idea mi è rimasta in testa per una decina d’anni e, alla fine, ho deciso di farci un film, trovata la storia giusta.
Stai già pensando a un nuovo progetto?
Sì, ma sono solo agli inizi. Sento già una certa pressione. Al primo film, non c’è nessuno da deludere, puoi rischiare tutto. Nessuno sa chi sei. Ora, invece, sento delle aspettative da soddisfare. Il secondo lungometraggio è sempre il più complicato. In Serbia c’è la maledizione degli otto anni. Che ci vogliano, cioè, otto anni per realizzare il secondo lungometraggio. Spero che non mi colpisca.
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