Intervista a Paola Antonelli, curatrice del MoMa di New York

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Intervista a Paola Antonelli, curatrice italiana del MoMa di New York Che…

Intervista a Paola Antonelli, curatrice italiana del MoMa di New York

Che cos’è un museo oggi? Per Paola Antonelli la risposta è chiara: è il centro di ricerca e sviluppo della società. Nata in Sardegna e cresciuta a Milano, da 30 anni cura mostre e molto altro al MoMA di New York, dove oggi ricopre la carica di Senior curator per il Department of Architecture and Design, oltre a dirigere l’area di Research and Development. Con il suo lavoro di curatrice ha definito una professione, legando a doppio filo design e società. Lo ha fatto occupandosi di sedie e tavoli, ma anche di angeli e bullismo, passando per armi e videogiochi, senza dimenticare la moda. Con chiarezza e generosità, in questa intervista ci svela il suo percorso professionale e di vita, dove scelte e adattamenti incontrano determinazione e visione.

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Come è arrivata negli USA? Era un sogno?

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Non posso dire di aver scelto New York, né di aver scelto di lavorare in un museo o di essere curatrice. Ogni tanto penso che nella mia vita non abbia preso quasi nessuna decisione fondamentale tranne quella di lasciare la Bocconi per passare ad architettura al Politecnico. Quella è stata “la decisione”. Molto spesso utilizzo il surf come metafora per la mia carriera: devi dare delle gran bracciate per arrivare a largo, ci vuole allenamento e lavoro duro. E poi devi avere la prontezza di riconoscere l’onda giusta. Mi rendo conto col senno di poi che tante scelte le ho quasi provocate. All’università ho iniziato a lavorare come assistente alla Triennale. Da cosa nasce cosa e mi sono ritrovata a Los Angeles, dove ho cominciato a insegnare alla UCLA, continuando a fare la spola tra l’Italia e Los Angeles. Dopo tre anni e mezzo ero stufa di quella vita e ho trovato un annuncio per un lavoro al MoMA. Mando la mia application e alla fine mi hanno offerto il lavoro.

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Pensando ai suoi anni di formazione in Italia, c’è una lezione che le è stata particolarmente utile?

La più grande lezione è stata quella di passare da una scuola strutturata come la Bocconi al completo caos di architettura. Ho imparato l’importanza di darti una struttura da sola. Mi sono goduta il marasma del Politecnico e al tempo stesso mi sono trovata la mia spina dorsale. Ho imparato l’autosufficienza.

L'Agnes Gund Garden Lobby che si affaccia sull'Abby Aldrich Rockefeller Sculpture Garden davanti al MoMa.

L’Agnes Gund Garden Lobby che si affaccia sull’Abby Aldrich Rockefeller Sculpture Garden davanti al MoMa.

Digital Image, The Museum of Modern Art, New York

Sostiene che si possa essere curatori anche senza musei o gallerie. Un esempio?

Con i MoMA R&D Salons cerco di dimostrare che il museo può essere un dipartimento di ricerca e sviluppo per la società, organizzando incontri pubblici che hanno a che fare con problemi di tutti, dalla morte a come protestare, dal come vivere con gli animali al bisogno di avere degli angeli. Sono sempre pieni nonostante il live streaming. Ci sono 5 speaker e ognuno ha 7 minuti a disposizione. Ma una delle grandi innovazioni è che prima suggeriamo una serie di letture. Quando si apre all’intervento del pubblico arrivano sempre domande intelligenti. Questo dimostra che la gente ha voglia di parlare in modo serio.

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Nel 2017 con ITEMS: Is fashion Modern? ha messo in piedi una mostra fondamentale per leggere il rapporto tra moda e design…

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C’era appena stata la grande mostra Alexander McQueen: Savage Beauty al Metropolitan Museum e il direttore Glenn Lowry mi ha chiesto di pensare a una mostra di moda. Non sono un’esperta e ho proposto una mostra di design con la moda come soggetto. L’idea era guardare gli ultimi 120 anni di storia del mondo visto da New York. C’era il dashiki trasformato ad Harlem, il little black dress, la kippah, e altri oggetti che hanno a che fare con la Grande Mela, dove notoriamente la gente ha una grande libertà e un’ampia gamma di vestiti.

E avete lavorato anche sullo stile dei visitatori…

Uno dei lavori era dell’artista Emily Spivack e consisteva nel chiedere alle persone di descrivere a parole come si erano vestite quel giorno. Senza foto, senza social media, di colpo ti rendi conto dell’investimento di identità e di storia che c’è nei vestiti. Il progetto è ancora disponibile sul sito del MoMA.

La cover del catologo ITEMS Is fashion Modern al MoMA.

La cover del catologo ITEMS: Is fashion Modern? al MoMA.

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È vero che la moda ha segnato l’inizio della sua carriera?

In realtà lavoravo per Barbara, la mamma della migliore amica di mia sorella. Era la Pr del GFT, poi di Armani. Ho cominciato lavorando alle sfilate tenendo la stampa separata dai compratori. Poi mi sono trovata da Armani in via Durini. È stato bellissimo. Ho visto la moda da vicino e mi sono divertita un mondo.

La sua prossima mostra, Pirouette: Turning Points in Design, apre il 26 gennaio e parla di grandi passaggi e svolte. Di cosa si tratta?

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Nasce dall’idea di trattare gli oggetti come star. Questi ultimi sono abbracciati da quinte molto teatrali, da pareti rosso cupo e tende quasi viola. Ognuno rappresenta un momento di svolta, nel design ma non solo. C’è il Walkman, perché per la prima volta permetteva di creare una specie di spazio metafisico più grande dello spazio fisico. C’è una sedia di Martino Gamper, uno dei cubi di Sabine Marcelis, un mixer da Dj di Virgil Abloh, il braccialetto della vita di Medici Senza Frontiere. Sono oggetti disparati che danno l’idea della potenza del design. Per chi crede che sia fatto solo di sedie carine, questo è un buon modo per comprendere che si tratta di innovazioni non soltanto nell’uso e nella produzione, ma per la società.

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