La Basilicata è una tra le regioni del meridione d’Italia che dispone di maggiori quantità di risorse idriche. Nonostante sia notoriamente ricca d’acqua, una parte della sua popolazione ha subito una crisi idrica che si è protratta dalla metà dello scorso ottobre al 20 gennaio 2025. Ben ventinove comuni (ventisette della provincia di Potenza e due della provincia di Matera) sono stati privati dell’acqua corrente per dodici ore al giorno. Le restrizioni hanno riguardato 140 mila persone.
LA CRONACA
A ottobre il governo a guida Giorgia Meloni dichiara lo stato di crisi nominando il presidente della Regione Basilicata Vito Bardi quale commissario straordinario all’emergenza idrica. Si aggiunge paradosso al paradosso: chi ha in parte generato il problema viene chiamato a risolverlo. La crisi nasce, secondo la narrazione istituzionale, dalla mancanza di piogge che avrebbe determinato l’esaurimento dell’acqua in una delle dighe lucane, la diga della Camastra. Per la prima volta anche il governo regionale fa riferimento al cambiamento climatico, a suo avviso l’unico colpevole che fa precipitare i ventinove comuni lucani nella serrata dei rubinetti. La Camastra è la diga che raccoglie e consegna l’acqua allo schema idrico Basento-Camastra. Nel novembre scorso arriva al minimo storico di acqua invasata, scendendo a 350 mila metri cubi contro i 32 milioni di metri cubi di capacità del progetto originario. Da quel momento per i cittadini di quei comuni inizia un vero e proprio calvario. I lucani non sono i primi, né sicuramente gli unici, ad avere disagi per via del razionamento dell’acqua. L’assurdità è però evidente: in Basilicata la popolazione residente è di cinquecentomila persone mentre la sua risorsa idrica, grazie alla presenza di una rete idrografica fitta e generosa, ha la possibilità di soddisfare le esigenze di oltre cinque milioni di persone. La situazione lucana disegna una distopia se ci si interroga su quella che sarà la gestione dell’acqua in tempi futuri, in cui le risorse idriche della terra di sicuro diminuiranno in seguito alle modifiche del clima e, soprattutto, la loro gestione sembra orientata verso una privatizzazione sempre più marcata. Il racconto istituzionale della crisi idrica in Basilicata, infatti, non convince per nulla. Le cause della crisi – vedremo – non sono imputabili alla sola assenza di pioggia, ma sono di tutt’altra natura.
Torniamo a ottobre 2024. L’unità di crisi con a capo il commissario/governatore Vito Bardi comunica che, dal giorno 16, i comuni serviti dallo schema idrico Basento-Camastra andranno incontro a restrizioni. Stop all’acqua corrente dalle 18:30 della sera fino alle 6:30 del mattino successivo. Un annuncio scarno, freddo e perentorio. Nel comunicato si aggiunge la notizia che la diga della Camastra è in sofferenza e che, se non arriveranno imminenti piogge, si arriverà a uno svuotamento totale della riserva d’acqua entro il 25 novembre; da quel punto l’unica soluzione per garantire l’acqua sarà attingerla dal fiume Basento. Succederà esattamente così. Il Basento nasce poco distante dal capoluogo di regione, precisamente tra le montagne del comprensorio di Monte Arioso, e dopo 150 km sfocia nello Ionio. È un fiume storicamente considerato molto inquinato. Prima di immergersi nel mare, infatti, attraversa varie zone industriali, tra cui quella di Tito. L’area industriale di Tito ospita un Sin, Sito d’interesse nazionale ai fini della bonifica. Da anni si parla del disastro provocato dalla ex Daramic, una fabbrica ora chiusa che produceva separatori in plastica per batterie. Tra il 1985 e il 1987 c’è stato uno sversamento accidentale di quindici tonnellate di tricloroetilene (trielina), una sostanza cancerogena che è potuta arrivare fino alla falda acquifera. Allo sversamento non è ancora seguita la rimozione e la conseguente bonifica dei terreni. La Daramic scaricava, come alcune altre aziende, i reflui di lavorazione nel torrente Tora, un affluente del Basento. A certificare il disastro ambientale ci ha pensato la magistratura. L’ultima inchiesta della procura di Potenza è del 2023 e riconferma che a Tito Scalo la situazione è ferma al momento dell’incidente, con valori di trielina superiori ben 270 mila volte alla soglia stabilita per legge. Il Basento raccoglie pure i reflui della produzione siderurgica presente nella zona industriale di Potenza e, continuando la sua corsa verso il mare, raccoglie anche le acque di scarto del depuratore della città. Con questo potenziale carico inquinante arrivava alla piscina temporanea scavata a servizio del neonato impianto di sollevamento di Albano di Lucania. Dall’impianto provvisorio, con una condotta lunga 4 km, si porta l’acqua a una vasca, battezzata Camastrino, per poi immetterla nella condotta esistente che in origine portava le acque della diga della Camastra nell’acquedotto fino al potabilizzatore di Masseria Romaniello a Potenza.
La mobilitazione popolare rispetto a questa scelta a dir poco affrettata è subito massiccia e spontanea. Nessuno rimane in silenzio, dagli studenti ai comitati dei genitori fino ai pensionati. Per convogliare e dare un minimo di struttura alla protesta nasce il comitato acqua pubblica “Peppino Di Bello”. Al contrario, in viale Verrastro, la sede della Regione Basilicata, il mutismo e l’autoritarismo nelle decisioni sono l’unica risposta. La protesta è etichettata, come da copione, populista e allarmista da tutto l’arco governativo regionale, con l’aggiunta di immancabili minacce di querele per procurato allarme.
La prima risposta pubblica di Bardi al suo stesso consiglio regionale arriva in data 19 novembre, a oltre un mese dal razionamento dell’acqua e a pochi giorni dall’arrivo delle acque del Basento nei rubinetti dei lucani. Una risposta scritta probabilmente altrove e letta dal presidente dal primo all’ultimo rigo, con fiato corto, senza un minimo di partecipazione emotiva. Il nodo responsabilità è l’unico su cui Bardi costruisce l’intervento, per scaricare le colpe sulle precedenti amministrazioni, colpevoli di scarsa cura e manutenzione delle dighe lucane, omettendo di sottolineare che da sei anni è lui il presidente della regione. Vaghe e sommarie le informazioni sui lavori da realizzare alle dighe da parte del nuovo gestore degli invasi lucani. Dal messaggio di Bardi letto in assise regionale, senza possibilità di replica da parte dei consiglieri e con la gente a occupare la strada fuori dal Consiglio, vengono fuori i nomi di altri attori della crisi idrica: i responsabili politici e tecnici di Acquedotto Lucano e Acque del Sud spa. Acquedotto Lucano è una controllata pubblica della Regione Basilicata. Acque del Sud è una nuovissima creatura dello Stato italiano, una società nelle mani del ministero delle economie e delle finanze.
STATO DI EMERGENZA
L’emergenza, e i commissari che derivano dalle emergenze, è ciò che mette in campo la politica italiana. A capo dell’unità di crisi ci finisce il governatore di una piccola regione del Sud che, guarda caso, è anche generale, cosi come lo era il Figliuolo durante l’emergenza Covid. Una carica militare rivendicata da Bardi stesso a dicembre, in conferenza stampa, come replica a una giornalista di Report. “Qui rispondo da generale”, salvo poi in verità non rispondere, né lì né ad altre domande, per tutti i mesi di durata della crisi, né da generale né da commissario né da governatore della Basilicata. Il finanziamento stanziato dal governo Meloni per l’emergenza lucana dovuta alla crisi idrica è di 2,5 milioni di euro, finiti presto. La sola condotta dal fiume Basento alla diga della Camastra, con le sue pompe di sollevamento, assorbe la metà del budget. Poi c’è l’acquisto di buste di acqua potabile da Acquedotto Pugliese, che prende l’acqua potabile dalle dighe lucane, altro ridicolo cortocircuito. L’emergenza permette a Bardi e ai suoi istituti di vigilanza e controllo, Arpa Basilicata su tutti, di andare in deroga alla legge su un tema come l’acqua a uso civile, e questo desta ulteriore preoccupazione. Prima di potabilizzare l’acqua di un fiume, infatti, andrebbero eseguite analisi ripetute e continuate per un anno intero. Solo nell’eventualità di esito positivo si può procedere alla potabilizzazione. In Basilicata le acque del Basento sono analizzate per meno di due settimane. Si può andare in deroga alle leggi in periodi emergenziali, ma non su questioni che riguardano potenziali problemi legati alla salute della cittadinanza. Invece è quello che il generale Bardi fa per tre mesi con i cittadini lucani, con l’avallo dell’Asp, dell’Arpab e delle analisi di Acquedotto Lucano. La magistratura lucana, che affida ulteriori analisi dell’acqua del fiume Basento all’Arpa Campania, ha confermato quanto sostenuto dagli altri organi di controllo e così l’acqua del Basento in quindici giorni diventa potabile. Ma potabile non vuol dire per forza buona. Infatti si sostengono processi di potabilizzazione spinti a livello chimico-fisico e per la disinfezione dell’acqua si usano percentuali di cloro incredibilmente alte, al punto che l’odore del cloro dai rubinetti perfora le narici. Dulcis in fundo, il direttore scientifico di Arpa Basilicata ammette candidamente, ai microfoni di Report, che è meglio bere acqua minerale invece che quella del Basento, mentre il direttore generale dell’Arpab parla di analisi “moderatamente positive”. Trapela un allarmismo non tanto velato da questi uomini delle istituzioni, le stesse invocate per l’intera durata della crisi come modello inattaccabile a cui credere ciecamente; le stesse che non aprono un dialogo con la popolazione e non chiedono se i cittadini sono disposti a sostenere sacrifici maggiori in tempo di ore di sospensione dell’erogazione evitando l’ingerenza dell’acqua del Basento.
Tornando ai veri attori della crisi, troviamo di sicuro l’ente gestore della rete idrica, l’Acquedotto Lucano completamente a gestione pubblica e sotto l’egida della Regione Basilicata. Nato nei primi anni duemila staccandosi da Acquedotto Pugliese, ne sono soci tutti i 131 sindaci dei comuni lucani. Ad Acquedotto Lucano tocca tuttavia la sola distribuzione dell’acqua dagli invasi alle case, non la reperibilità della risorsa. Se di acqua nell’invaso della Camastra non ce n’è, non è possibile imputarne la responsabilità ad Acquedotto Lucano, ma gravano sull’ente le responsabilità delle perdite delle condotte, il 65% dell’acqua che trasportano (dati Istat). Un quantitativo enorme, l’ingiustificabile perdita di acqua è presente da anni, ma questo è un fenomeno diffuso in tanti acquedotti italiani. È grave, ma il tema vero qui è la gestione dell’acqua invasata, in questo momento storico la gestione delle grandi dighe lucane è sotto il controllo del vero protagonista di questa vicenda: Acque del Sud spa.
CARROZZONI
La risorsa idrica del meridione d’Italia è in capo ad Acque del Sud spa, che ha sostituito il commissariato Eipli, Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia, Lucania e Irpinia. Acque del Sud nasce della legge 74/2023 per volontà del governo Meloni. Luigi De Collanz, già commissario e liquidatore Eipli, diventa il presidente della nuova società per azioni. Il ministero delle economie e finanze detiene il 65% delle quote; un restante 30% è destinato a soci privati e l’ultimo 5% sarà diviso tra le regioni del Sud. Il carrozzone Eipli – cosi definito dalla politica stessa – in tanti anni di gestione lacunosa e debitoria non aveva mai lasciato i lucani senz’acqua. Acque del Sud ci riesce subito.
Le dighe italiane, in virtù di una serie di norme per la sicurezza sismica imposte dal 2019 dalla Direzione generale per le dighe e le infrastrutture idriche, sono tutte drasticamente ridotte per capacità d’invaso. È solo la Camastra, tuttavia, a risultare vuota al punto da attingere acqua dal fiume. Lo svuotamento repentino non è normale se si osservano i dati sul prelievo giornaliero dalla diga verso lo schema idrico Basento-Camastra, che nell’anno 2024 è sempre più importante rispetto al passato. Acque del Sud non spiega il perché, indica la vecchia gestione come il male assoluto e annuncia imminenti lavori con somma urgenza per ampliare la quota invasabile cosi da ottenere una maggiore riserva d’acqua; questo a parole perché già dopo le nevicate di inizio gennaio la diga della Camastra ha raggiunto il suo volume massimo e pare si rischia già di sversare l’acqua nel fiume. Insomma Eipli era un carrozzone e non era capace, ma Acque del Sud non si sta dimostrando più efficace.
Il vertice della società a partecipazione statale, alle prime domande e dubbi sorti sulla gestione della risorsa invasata da parte dei comitati di lotta, risponde con un’offesa: “qualunquisti da marciapiede”. Ai cittadini lucani spaventa l’indicazione governativa che offre il 30% delle azioni di una risorsa come l’acqua ai privati. L’acqua non può essere oggetto di mercificazione. Le regioni del sud devono detenere minimo il 35% delle quote della società per avere un ruolo da protagonista, nessun privato può comperare l’acqua e trattarne il costo e il valore. Nel 2011, in Italia, il referendum sull’acqua pubblica ha sancito questo principio, il contrario di quello che indica la linea politica che sta portando avanti il governo Meloni. La legge che ha portato ad Acque del Sud va rivista e concertata con le regioni, soprattutto con quelle come la Basilicata che dispongono dell’acqua. Su questo bisogna intestare la battaglia civile e soprattutto politica.
Si sta smantellando quanto fatto di buono fin qui in termini di collaborazione tra regioni. Negli ultimi decenni l’accordo di programma tra lo Stato e le regioni Basilicata e Puglia per una gestione condivisa dell’acqua aveva funzionato. L’accordo stipulato con la legge 36 del 1994, attivo dal 1999, aveva tra le finalità il superamento dei conflitti legati alla disponibilità della risorsa idrica, era una vera forma di federalismo solidale tra regioni. Un unicum europeo. Ventisei anni dopo quell’accordo è alle soglie di possibili scontri sociali tra porzioni di territori che dispongono di acqua, la Basilicata, e territori che ne sono privi, la Puglia.
La trazione industriale e capitalista che il mondo sta imponendo a una velocità che pare inarrestabile, investe anche la risorsa più importante per l’uomo e la sua esistenza. Questo concetto possiamo spiegarlo con un esempio e pochi freddi numeri: il 50% dell’acqua prelevabile in natura è utilizzata per l’agroindustria e l’allevamento intensivo, un ulteriore 30% è utilizzato per la produzione di energia e per le attività minerarie; a uso civile idropotabile rimane solo il 20% e in caso di crisi idrica, come quella lucana, a chi viene razionata l’acqua? A chi produce carne? A chi produce elettricità o estrae petrolio e gas? No, l’acqua viene razionata prima alla gente e poi alle industrie.
Serve una mobilitazione forte e diffusa tra le persone per provare a salvarsi tutti insieme. E forse proprio da una vertenza che metta al centro l’acqua come bene comune, pubblico e intoccabile dal denaro, potremmo provare a ripartire per dare voce a questa regione del meridione d’Italia cosi ricca di acqua e petrolio al punto che è colonizzata ormai da trent’anni dalle più grandi multinazionali dell’estrattivismo fossile con Eni in testa. (mimmo nardozza)
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