Possono essere vincenti, addirittura invincibili, ma i campioni di oggi hanno una priorità: vogliono stare bene, sentirsi parte di qualcosa di buono. In un mondo dove l’odio e i conflitti sembrano essere diventate le modalità standard di rapportarsi con il prossimo, c’è una generazione che dallo sport ha preso tutto il senso: conta il viaggio, non la meta. Nel ciclismo, nel salto in alto, nel salto con l’asta. È la strada fatta insieme che ti unisce
Possono essere vincenti, addirittura invincibili, ma i campioni di oggi hanno una priorità: vogliono stare bene, sentirsi parte di qualcosa di buono. In un mondo dove l’odio e i conflitti sembrano essere diventate le modalità standard di rapportarsi con il prossimo, c’è una generazione che dallo sport ha preso tutto il senso: conta il viaggio, non la meta. E il viaggio dello sport non lo fai da solo: per vincere e per perdere hai bisogno degli altri, e nessuno può sapere cosa provi meglio di chi fa la tua stessa fatica. Soltanto uno vince, gli altri perdono.
«Il dolore quando perdo è più forte perché noi esseri umani siamo maggiormente attaccati alle cose che non abbiamo e ci sfuggono, piuttosto a ciò che abbiamo»: parole di Jannik Sinner, che pure è più abituato a vincere. Anche sport che tradizionalmente hanno vissuto di grandi rivalità, come il ciclismo, oggi vedono al comando non più l’uomo solo della tradizione ma una generazione di superatleti che vincono tutte le corse più importanti con una facilità impressionante ma appena tagliato il traguardo sanno condividere, giocare, scherzare, consolare.
Il ciclismo è una band
Tadej Pogacar, il cannibale di questo millennio, a 26 anni è pieno di amici in gruppo: il suo atteggiamento giocoso fa sì che nonostante la sua superiorità imbarazzante in corsa il resto del gruppo non abbia scelta, e si divida tra chi lo ammira e chi si arrende prima ancora di partire. Eppure lui stesso non nasconde di fare il tifo per altri, e riesce a vedere che esiste un mondo oltre Pogacar. «Se fossi un bambino, il mio idolo sarebbe Mathieu van der Poel, è una persona che mi piace, tutte le volte che ci incontriamo vengono fuori dei bei duelli».
L’olandese a 30 anni è già stato undici volte campione del mondo tra tutte le discipline del ciclismo, e si diverte talmente tanto in bici che non va neanche in vacanza. D’inverno, quando il ciclismo su strada va in letargo, van der Poel si dedica al ciclocross. Anzi, lo domina: quest’anno ha vinto tutti i cross (7) che ha fatto. Ingaggiarlo costa dai 20 ai 50mila euro a gara, ma lui ripaga mettendocela sempre tutta: nell’ultima prova di Coppa del Mondo ha regalato salti acrobatici nonostante una costola rotta e impennate con la bici per intrattenere gli spettatori.
Dopo la penultima vittoria in Coppa del mondo, sabato a Maasmechelen, sul traguardo ha festeggiato mimando una telefonata. «Questa mattina ho chiamato Evenepoel per fargli auguri per i suoi 25 anni, e mi ha chiesto un regalo. Così gli dedico la vittoria». Remco Evenepoel è un altro dei supereroi di quest’epoca, ma in questo momento è fermo perché è andato a sbattere contro una portiera incautamente aperta da una postina. Poche ore dopo, su Instagram, il belga ha ringraziato. «Chiamata ricevuta, fratello». Sono diventati amici in Spagna, dove vanno d’inverno a cercare il sole e il caldo. E non importa se ogni tanto lottano per le stesse corse. «Uno di questi anni non correrò il Fiandre per lasciarglielo, e lui in cambio non farà la Liegi», ha detto van der Poel scherzando, o magari no.
I meriti di Sagan
Il ciclismo fino a pochi decenni fa era uno sport quasi regionale, se lo spartivano italiani, belgi, spagnoli e francesi, e per lo più si detestavano. Poi il mondo si è improvvisamente allargato: corse in Sudamerica, in Australia, nei Paesi Arabi, in Oriente, corridori australiani, ecuadoriani, eritrei, e nessuno ha più il monopolio dei fuoriclasse. La detonazione è stata negli anni Dieci di questo millennio, quando un talento venuto da un paese piccolo e recente, la Slovacchia, ha portato il ciclismo nel West con il suo furore, la sua naturalezza, la sua incoscienza. Era sempre stato lo sport della fatica, della sofferenza, delle camere d’aria tenute con i denti, e all’improvviso saltò fuori Peter Sagan, rumoroso, inopportuno, sgraziato, fortissimo, e butto giù tutti i confini.
Quando vinse il primo dei suoi tre Mondiali consecutivi, a Richmond, in Virginia, si mise sulla linea del traguardo ad aspettare i suoi avversari, ma mica per irriderli: se non la dividi con gli altri che festa è? Lo sanno da sempre i decatleti, che hanno in comune una fatica che dura due giorni e si declina in diverse specialità e lunghe attese.
Il salto in alto
È la strada che fai insieme che ti unisce. Il tempo tra un salto e l’altro è quello che ha cementato i migliori rapporti di amicizia tra saltatori. Gianmarco Tamberi e Mutaz Barshim l’hanno sublimata scegliendo di dividersi il massimo della gloria, l’oro olimpico di Tokyo nell’alto.
Ma amici lo erano da tempo, dalla prima volta ai Mondiali Under 20 del 2010, in Canada, nella buona e soprattutto nella cattiva sorte: tutti e due hanno dovuto patire la stessa orribile frattura alla caviglia, tutti e due sono tornati. Un anno dopo il suo infortunio, che gli aveva negato i Giochi di Rio, Tamberi non riuscì a saltare la misura di qualificazione al meeting di Parigi. Deluso, si barricò in camera sua, ma Barshim continuò a chiamarlo finché l’altro non lo fece entrare: fu il suo avversario a rincuorarlo, a spiegargli che doveva avere ancora un po’ di pazienza. L’anno dopo toccò all’atleta del Qatar rompersi la caviglia, e fu Tamberi a consolarlo e incoraggiarlo. A Tokyo successe quello che sapete. «Possiamo avere due ori?». Potevano.
Il salto con l’asta
Tradizionalmente è il salto con l’asta la specialità dei fratelli d’elezione. Sarà che da lassù si vede il mondo con le giuste proporzioni, e anche i problemi appaiono infinitamente più piccoli. Alle Olimpiadi di Berlino, nel 1936, i giapponesi Shuhei Nishida e Sueo Oe chiusero la gara dell’asta al secondo posto, ma non vollero spareggiare. La giuria fu inflessibile: uno doveva prendere l’argento e l’altro il bronzo, e alla fine fu deciso che Nishida avrebbe avuto la medaglia più preziosa. Ma loro erano amici, e non ragionavano così: tornati in Giappone, decisero di tagliare a metà le loro medaglie, e di fonderle in un ibrido: per tutta la vita avrebbero avuto un mezzo bronzo e un mezzo argento a ricordare quella amicizia. Nella buona e nella cattiva sorte, finché morte non ci separi.
La vita di Nishida fu lunga e felice, quella di Oe tragicamente breve: nel 1937 portò a 4,35 il record giapponese dell’asta, che sarebbe rimasto suo per 21 anni, durando molto più di lui. Nel 1939 entrò nell’esercito imperiale e morì in azione nelle Filippine il 24 dicembre 1941. Amici oggi sono il francese Renaud Lavillenie e lo svedese Armand Duplantis, che da ragazzino aveva il poster dell’altro in camera e nel 2020 gli ha tolto il record del mondo. Rivali in cielo, quando posano i piedi per terra diventano soltanto amici. Quasi fratelli.
«Trascorriamo così tanto tempo insieme, dentro e fuori la pista, che si crea un legame unico – ha spiegato Duplantis – Il nostro sport ci obbliga quasi ad andare d’accordo. Naturalmente vogliamo tutti vincere. Ma questo non ci impedisce di rispettarci e incoraggiarci a vicenda». Hanno trascinato nel loro mondo ideale tutti gli altri: quella dell’asta è una compagnia, passano le vigilie guardando cartoni giapponesi e dopo le gare vanno a bere insieme. Anche le ragazze. Come ha detto la britannica Holly Bradshaw, «non lottiamo una contro l’altra, ma tutte contro l’asta». È inutile appesantirsi con gelosie e rancori: meglio alzare lo sguardo, e provare a volare.
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