il dibattito de Il Riformista

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Con il ritorno di Trump alla Casa Bianca – le big tech, da Musk a Bezos fino a Zuckerberg, schierate con lui – si apre una nuova era dell’informazione: quali saranno le regole del gioco? Se ne è discusso ieri, mercoledì 29 gennaio, in un dibattito organizzato da Il Riformista in collaborazione con la Fondazione Ottimisti e Razionali e con la media partnership di URANIA TV. Insieme al direttore Claudio Velardi, e con Anna Paola Concia – che ha vinto il premio della “Riformista dell’anno” – Mario De Pizzo, Luigi di Gregorio, Antonino Monteleone, Francesco Nicodemo e Flavia Perina.

Disintermediazione e uso strategico dei social media
Fin dal suo primo mandato, l’era Trump ha segnato una trasformazione epocale nel rapporto tra politica e media, come ha indicato nel proprio intervento Mario De Pizzo: il 47esimo presidente americano ha sfruttato i social media, spesso baypassando i tradizionali canali di informazione, per istaurare un modello di comunicazione diretto con la popolazione. La sua comunicazione politica ha rivoluzionato il panorama mediatico, tra disintermediazione, uso strategico dei social media e conflitto con i media tradizionali. Tanto che, riflette Flavia Perina, “le parole con lui non contano quasi più niente, contano i gesti: nello stile proprio di uno dei social più elementari e frequentati, TikTok”.

Il ruolo dei podcast 
Per esempio, Trump si è fatto intervistare in venti diversi podcast, alcuni molto specifici come quello sul wrestling condotto da Mark Calaway, noto come The Undertaker (il becchino), ha notato Antonino Monteleone, e in altri particolarmente popolari come il programma di Joe Rogan, comico e commentatore di arti marziali miste, molto criticato per le sue posizioni scettiche sui vaccini e per aver promosso teorie del complotto, ma seguitissimo.

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E se nel 2016, dopo la prima vittoria elettorale di Trump, la riflessione intorno ai media (e interna ai media) riguardò soprattutto una presunta sottovalutazione del candidato e del suo elettorato – con i grandi giornali a chiedersi se avessero sottolineato abbastanza i rischi di una sua presidenza –  otto anni dopo, i media non si sono fatti trovare preparati: tutti i più autorevoli e diffusi quotidiani e periodici americani avevano assolutamente messo in conto una sua vittoria. Ma, come ha scritto Sharon Waxman, fondatrice di TheWrap, all’indomani del voto, “sembra che nessuno di questi messaggi sia arrivato a destinazione, a quanto pare stiamo parlando da soli”.

Ma al netto dell’evidente (e globale) perdita di rilevanza dei giornali tradizionali, che hanno mezzi economici più limitati, c’è anche il fatto di essere percepiti come inaffidabili. A differenza dei “nuovi media” attraverso i quali le persone oggi ricevono informazioni: un paradosso. Che però ha delle ragioni.

Per esempio, è indubbio che una parte importante del pubblico statunitense, quella di tendenze più conservatrici, ritiene che i media tradizionali siano parziali, favorendo una visione vicina ai Democratici e ostile ai Repubblicani. Questa convinzione ha anche un fondamento che deriva dalla tradizionale capacità del pensiero progressista di costruire elaborazioni culturali di maggior successo. E che ha visto, tra l’altro, negli ultimi 15 anni, la costruzione e diffusione della cultura woke contro cui Trump si è spesso scagliato – un intricato complesso di teorizzazioni e di pratiche elaborato dapprima dal movimento Black Live Matter (contro il “privilegio bianco”) ma che ha poi risucchiato via via un’amplissima rete di temi apparentemente slegati. Fino a produrre una serie di conseguenze paradossali, in termini di cancellazioni e demolizioni, materiali e immateriali, dando forma all’atteggiamento noto come cancel culture.

La Finestra di Overton
La cosiddetta Finestra di Overton – da Joseph Overton, sociologo Usa – è quello spazio nel quale un’idea è ritenuta accettabile dalla società, e quindi può passare dal dibattito pubblico e mediatico ad avere una sua concretezza. È anche un modello con cui verificare come un’idea – considerata prima impensabile – finisca per diventare all’interno di una data società prima largamente riconosciuta e poi realtà.

Ecco, ha riflettuto Luigi di Gregorio, quello che in genere è il frutto di un processo più o meno lungo – lo spazio di tempo perché un’idea prima impensabile diventi sensata per i più – è avvenuto negli Usa nel giro di alcune settimane. E questa accelerazione, per esempio, è stata resa evidente dal controverso, visionario, eclettico Elon Musk, proprietario di Tesla, SpaceX e del social network X, ex Twitter. Ed è su questo canale, il suo, che – come dice Antonino Monteleone – lancia l’ormai celebre, “You are the media now” (Ora siete voi i media). Certo, se vi abbonate a X: è difficile capire dove finisce l’attivismo politico e inizino gli affari anche perché nella sua visione del mondo (e nel mondo stesso), le cose sono strettamente intrecciate, anzi sono indistricabili.

La “challenge” riformista: vince Paola Concia
Claudio Velardi
ha infine raccontato la “challenge” del “Riformista dell’anno” che nell’editoriale del primo dell’anno aveva connotato come “globale, coraggioso, non conformista, realistico”. “La Riformista dell’anno” – visto che il premio se l’è aggiudicato Anna Paola Concia – è stata votata da 5mila lettori e amici del giornale e dopo un interessante testa a testa con Giorgia Meloni, l’altra finalista.

E se Francesco Nicodemo – che ha sottolineato il proprio punto di vista progressista – ha osservato come non sarà la ricerca moderata di soluzioni pragmatiche a “salvarci da una china estremista di destra”, piuttosto, lo farà una “ridefinizione netta della sinistra”, Velardi ha spiegato il senso del premio a Concia (simbolicamente, un cannocchiale: quello imbracciato dall’omino disegnato sulla testata de Il Riformista): “Di Paola non si può certo negare il coraggio, lei che combatte da anni – da quando non era di moda, si può dire? – per i pieni diritti e per il potere delle donne. Tantomeno si può obiettare sulla sua totale assenza di conformismo. Perché, con la stessa inesausta passione che l’ha sempre contraddistinta, oggi Paola combatte contro le degenerazioni delle battaglie femminili e femministe, e le insopportabili, spesso grottesche esasperazioni woke del politicamente corretto. Così come ci vuole tanta forza d’animo, determinazione (e tantissima pazienza…) per abbandonare i comodi lidi del luogocomunismo di sinistra e tuffarsi quotidianamente nel dibattito pubblico senza insegne né bandiere, se non quella della propria libertà”, ha concluso.

Fotografia di copertina, riprese e montaggi a cura di Simone Zivillica

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