In fuga dalla propria terra

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In ricordo e memoria della storia dei miei genitori Bianca e Giovanni.

L’esodo giuliano-dalmata è un evento storico consistito nell’emigrazione forzata e abbandono, da parte della quasi totalità dei cittadini di nazionalità di lingua italiana nonché di un consistente numero di cittadini italiani di nazionalità mista slovena e croata, dal loro territorio in cui erano radicati da secoli di storico insediamento e precisamente: Friuli-Venezia Giulia Orientale, Istria, Quarnaro e Dalmazia.

Questa tragedia drammatica avvenne una volta sperimentata l’atrocità delle foibe, delle violenze, delle deportazioni e a causa in un perdurante clima di terrore instauratosi con il consolidarsi nella Jugoslavia lo Stato totalitario comunista che il maresciallo Josip Broz Tito andava modellando.

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L’esodo, differentemente da quanto si crede, è stato un fenomeno lungo durato più di 10 anni dal 1943 al 1957.

Quantificare numericamente l’Esodo giuliano-dalmata è tutt’altro che semplice, poiché si è sviluppato in fasi differenti e attraverso diversi canali, non sempre facilmente registrabili ma, senza tema di esagerare, si può parlare almeno di Trecentomila esuli costretti a fuggire dalle proprie terre e prendere la via dell’esilio verso tutto il territorio italiano isole comprese e anche all’estero come emigrati in Argentina, Australia, Stati Uniti, Canada e Sudafrica.

Il 10 febbraio 1947, a Parigi, l’Italia e le potenze alleate avevano firmato il trattato di pace, un “diktat” che le imponeva, insieme ad altri obblighi, la cessione di gran parte delle terre conquistate a costo di immani sacrifici nella Prima Guerra Mondiale che di fatto passavano con la fine del secondo conflitto mondiale dalla sovranità italiana a quella jugoslava.

Il termine “esodo” fu scelto all’epoca dei fatti dagli stessi profughi per sottolineare la dimensione biblica della loro tragedia.

Gli storici hanno adottato, nel corso dei decenni, questo vocabolo per definire una particolare tipologia di spostamento forzato di popolazione, diverso nella forma ma, non nei risultati, dalle deportazioni e dalle espulsioni.

Ad esempio gli storici Ferrara e Pianciola nelle loro pubblicazioni danno questa definizione di Esodo: “quei casi in cui un gruppo di abitanti fu indotto a fuoriuscire dai confini politici del territorio in cui viveva a causa di pressioni esercitate dal governo che lo controllava, sia in termini di violenza diretta sia in termini di privazione di diritti, soprattutto in corrispondenza di un radicale mutamento politico che investiva le relazioni tra stati (conflitti bellici, crolli e costruzioni di stati)”.

Nelle circostanze che ci riguardano la migrazione forzata non era il chiaro obiettivo iniziale del governo di Tito, anche se questo la accetto la favorì e ne fu complice, e una volta innescato il meccanismo finì per meglio ordinarla e darle precisi connotati; il risultato finale fu l’emigrazione quasi totale del gruppo etnico.

Il regime comunista di Tito infatti procedette, fin dal 1943, ancor prima del termine delle ostilità, ad eliminare inizialmente gli elementi più compromessi con il fascismo e la successiva occupazione nazista, mediante processi sommari, atti di violenza contro l’incolumità delle persone, rappresaglie, infoibamenti, questo servì per innescare il successivo clima di terrore in tutti coloro che si dimostravano ostili al nuovo regime.

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Si registrarono anche i primi casi di rappresaglia: omicidi, infoibamenti e altri generi di brutalità da parte dell’elemento slavo nei confronti degli italiani che rappresentavano il potere politico e militare (gerarchi, podestà, membri della polizia, impiegati civili della Questura) e anche di esponenti della borghesia mercantile e di operatori commerciali.

Alcuni storici hanno voluto vedere in questi atti, quasi tutti verificatisi nell’Istria meridionale (oggi croata), una sorta di rivincita, di rivolta spontanea delle popolazioni rurali, in parte slave, come vendetta per i torti subiti durante il periodo fascista; altri, invece, di sicuro il fenomeno ha portato come conseguenza una vera e concreta pulizia etnica nei confronti della popolazione italiana.

Chi rimaneva senza aderire pienamente al nuovo regime, doveva fare i conti con l’angoscia di restare in territori non più italiani, sotto una forma di governo repressiva, o addirittura di rimanere apolide, nel caso in cui si rifiutasse di accogliere la cittadinanza jugoslava e, lo stesso Stato italiano non si era impegnato a garantire alcuna protezione contro eventuali atti di intolleranza o di discriminazione etnica.

L’esodo istriano-dalmata è inquadrabile in un fenomeno globale di migrazioni più o meno forzose di interi popoli all’indomani della Seconda guerra mondiale e che comportò lo spostamento di oltre 30 milioni di individui di tutte le nazionalità ed etnie.

Il caso dell’esodo giuliano-dalmata presenta due univocità:

• fu l’unico in cui una scelta di migrare fatta dai singoli o dalle singole famiglie si estese fino ad acquisire una dimensione di massa.

• altra unicità fu il fattore importante e fondamentale di poter conservare senza alcuna concessione della cittadinanza nel paese di accoglienza.

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Le motivazioni dell’esodo furono molteplici ma nella memoria degli esuli, un posto privilegiato ha la “paura” contro il regime di “terrore” che si stava instaurando che aveva tutti gli aspetti di una specie di “resa dei conti”.

Si trattava non solo dell’eco del trauma delle foibe (diventato terrore sistematico), ma anche di sparizioni tramite annegamenti, deportazioni in campi di concentramento operate dalle forze di occupazione jugoslave su civili italiani, tutto consolidato dalla situazione di costante insicurezza dovuta all’azione di un regime stalinista, al timore di vivere sottomessi ad una dittatura comunista in terre non più italiane.

D’altronde gli italiani erano visti con pregiudiziale sospetto, la mano pesante colpiva non solo verso i reali oppositori, ma anche chi solo si mostrasse tiepido nel rispondere agli appelli alla mobilitazione.

Ne seguì una serie infinita di abusi, prevaricazioni, intimidazioni, bastonature, arresti e sparizioni infatti, come strumento di eliminazione e di occultamento dei cadaveri gli Jugoslavi usarono anche il mare, specialmente in Dalmazia e nel Quarnaro (è tristemente noto l’esempio dell’assassinio dei fratelli Luxardo).

La paura fu la causa diretta delle fughe clandestine e quella indiretta dell’indebolimento della capacità di resistenza delle comunità italiane, un altro elemento determinante fu il ribaltamento generale, una vera rivoluzione degli assetti della società locale, dal punto di vista economico, politico, nazionale, culturale e di classe una vera e propria crisi identitaria che travolse le comunità italiane.

La trasformazione socialista dell’economia distrusse le basi materiali di buona parte delle comunità italiane, i rapporti fra i “poteri popolari” e gli italiani furono sin dall’inizio pessimi e peggiorarono col tempo.

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Fino a quel momento gli italiani avevano detenuto il monopolio del potere e di colpo ne furono totalmente esclusi; allo stesso modo, mentre fino ad allora essere italiani aveva costituito un vantaggio, dopo il maggio 1945 divenne una penalizzazione; perché quella italiana veniva una minoranza da considerare subordinata, appartenere al gruppo nazionale italiano rappresentava di per sé occasione di sospetto e quindi di rischio personale.

l’uso della lingua l’appartenenza alla cultura italiana non erano ufficialmente vietati, era invece considerato grave reato ogni riferimento ai contenuti politici dell’identità nazionale italiana, il Risorgimento, il Patriottismo italiano veniva trattato come un crimine.

Per far perdere i connotati italiani ci fu anche un tentativo delle autorità di slavizzare i cognomi e la negazione dell’accesso alle scuole italiane; il Bollettino Ufficiale jugoslavo pubblicò ordinanze secondo le quali si conferiva al Comitato Popolare locale il diritto di disporre delle case degli esuli italiani e di cederle ai cittadini croati; si autorizzava il sequestro di tutti i beni del nemico e degli assenti.

Si considerava nemico e fascista, quindi da epurare, chiunque si opponesse al passaggio dell’Istria alla Jugoslavia le priorità per Tito e i suoi seguaci erano nell’ordine:

• priorità nazionalistica per una pulizia etnica,

• priorità politica ossia contro gli oppositori anticomunisti,

• priorità ideologica ossia contro i reazionari,

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• priorità sociale ossia contro i borghesi.

Per comprenderle meglio, conviene distinguere fra motivazioni delle vittime e intenzioni del potere, salvo poi ricombinare i due piani del discorso.

Indubbiamente gli italiani erano esposti a violenze e rappresaglie da parte delle autorità jugoslave ma più in generale, tutti i comportamenti, i valori e le gerarchie consolidate da tempo immemore venivano rimessi in discussione.

I ceti urbani, dominanti fin dai tempi della romanizzazione, si trovarono alla mercé di quelli rurali, tradizionalmente subordinati, mentre il rovesciamento del rapporto città/campagna assumeva anche un chiaro connotato di rivalsa nazionale.

Sparirono rapidamente i punti di riferimento consueti del gruppo nazionale italiano: amministratori locali, insegnanti, sacerdoti, vittime questi ultimi di una persecuzione religiosa che colpì duramente anche le grandi masse di fedeli.

Nelle campagne, i coltivatori diretti italiani si scoprirono in balia degli elementi marginali delle comunità di paese.

Il sommarsi di tali elementi, in un clima generale di immiserimento ed oppressione, generò una diffusa situazione di “spaesamento”, sintetizzabile nell’espressione “sentirsi stranieri in patria”.

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Si creò così una situazione di complessiva invivibilità, nella quale le comunità italiane giunsero, con ritmi diversi, alla medesima conclusione: mantenere l’identità italiana, con tutta la densità attribuita a tale espressione, era impossibile nelle condizioni stabilite dal regime jugoslavo.

Da ciò la decisione di abbandonare tutto: lavoro, case, storia, ricordi, tombe e affrontare il rischio dell’esodo, una scelta dolorosa che avrebbe segnato in bene e in male per sempre le loro vite.

Ma quante persone? Quanti italiani?

Zara, capoluogo della Dalmazia, fu la prima città a svuotarsi poiché 53 bombardamenti anglo-americani consumatisi tra il 2 novembre 1943 ed il 31 ottobre 1944 rasero al suolo l’85% degli edifici di una località priva di qualsiasi valore strategico e con una presenza militare ridotta ai minimi termini.

Su 22.000 abitanti circa, 2.000 morirono sotto le bombe (nessun’altra città italiana ha registrato il 10% di vittime civili sotto i bombardamenti) e 15.000 fuggirono in Italia.

Tra la fine della guerra e la firma del Trattato di Pace, esodarono gli abitanti di Fiume e dell’Istria che si erano trovati nella Zona B sotto amministrazione militare jugoslava ed istituita lungo la Linea Morgan con l’accordo di Belgrado del 9 giugno 1945.

Si parla che da Fiume 54.000 abitanti su 60.000 quasi il 90%, da Rovigno 8.000 abitanti su 10.000, da Pola 28.000 abitanti su 32.000, da Dignano 6.000 abitanti su 7.000.

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A costoro si unirono 5.000 connazionali provenienti fortunosamente dall’entroterra sotto controllo jugoslavo, confluirono anche sloveni e croati, che non condividevano i postulati ideologici sui quali stava nascendo la Democrazia Federale di Jugoslavia.

Si parla anche di 3.000 proletari partigiani che avevano partecipato attivamente alla resistenza contro i fascisti e nazisti.

Nonché italiani di recente immigrazione giunti con le famiglie al seguito per lavorare nella pubblica amministrazione delle terre già irredente annesse al Regno d’Italia al termine della Grande Guerra.

Ma non era neppure facile lasciare, gli esuli non sempre riuscivano ad ottenere agevolmente dalle autorità jugoslave il diritto di esercitare la propria opzione per la cittadinanza italiana, come previsto dall’articolo 19 del Trattato di Pace, che ne consentiva l’esercizio entro un anno dall’entrata in vigore del Trattato stesso.

Gli esuli furono indirizzati verso i 109 Centri Raccolta Profughi, disseminati in tutta il territorio nazionale, isole comprese, dopo che era stato bocciato un progetto di insediamento totale in Trentino – Alto Adige.

Queste sono solo alcune delle cifre che possono far comprendere la dimensione di un fenomeno che il governo italiano aveva cercato di frenare, sia perché non si riteneva in grado di affrontare una simile emergenza umanitaria, sia per mantenere una solida presenza italiana in loco auspicando una futura ridiscussione del confine.

Considerando anche questi apporti, la cifra totale di quanti abbandonarono le terre perse dall’Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale si avvicina alle 300.000 unità.

Un’intera società sparì, abbandonò le sue case, i suoi averi, le proprie abitudini.

L’arrivo in Italia fu spesso accompagnato da sospetto e diffidenza, poiché taluni vedevano i profughi (famiglie intere, con donne, vecchi e bambini) come fascisti in fuga dal “paradiso socialista” di Tito.

Furono scritte da fonti ufficiali del Partito Comunista Italiano parole non certo di “accoglienza” verso questi nostri poveri fratelli, offesi e vilipesi da una ideologia sicuramente non meno folle del fascismo.

In ultimo il rischio corso dalla vicenda tragica di essere “cancellata” dalla memoria: una “congiura del silenzio”.

La fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio.

Anche di questo non posso tacere!

Qualche storico negazionista o riduzionista ha voluto insinuare che si tratto solo di una ritorsione contro i torti del fascismo.

Perché tra le vittime italiane di un odio: intollerabile ideologico, etnico e sociale, comunque ingiustificato, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni.

In Italia, una certa propaganda legata al comunismo internazionale, aveva dipinto gli esuli come traditori, come nemici del popolo che rifiutavano l’avvento del regime comunista, in definitiva una massa indistinta di fascisti in fuga, esistono ancora a distanza di 80 anni piccole sacche di deprecabile e vergognoso negazionismo militante.

Oggi il vero avversario da battere, più forte e più insidioso, è quello: dell’indifferenza, del disinteresse.

Buona riflessione.

Roberto Kudlicka



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