Poesia e rivoluzione palestinese: intervista con Filippo Kalomenidis

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La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre“ di Filippo Kalomenìdis è un libro che erompe nel presente e nella storia.

Osteggiato dal sionismo italiano fino alle minacce di morte all’autore. Accolto con diffidente silenzio dalla galassia della “sinistra” liberale e da alcune voci della controinformazione. Messo all’indice come pericoloso e filo-terrorista dai neofascisti. Definito “eretico” tanto nei temi quanto nello stile.

È un’opera che si oppone al fondamentalismo capitalista-colonialistaaffondando le forti radici nel marxismo dei margini di Fanon, Césaire, Cabral, Habash e immergendo lo sguardo nella comprensione profonda dell’Islam rivoluzionario ed egualitario, colpevolmente ignorato in occidente.

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Kalomenìdis mescola saggio e poesia mettendoli al servizio delle donne e degli uomini del maremoto rivoluzionario del 7 ottobre 2023, combattenti armati della propria vita e della fede in un futuro giusto, reale e possibile. Indica la Resistenza Palestinese come ultimo bastione a difesa dell’umanità dalla barbarie liberista.

Sin dall’annuncio della prima presentazione dello scorso 13 novembre all’Università Statale di Milano, sei stato al centro di polemiche feroci come non se ne vedevano da anni attorno a un progetto letterario, poetico e storico. Perché su un indiscutibilmente innovativo contributo al dibattito sulla liberazione della Palestina e su questo tempo di guerre si è riversato così tanto odio?

I sionisti italiani, i loro sgherri disposti su ogni torre d’avvistamento del sistema culturale italiano, erano talmente disabituati a trovarsi davanti uno scrittore che vive la poesia come lotta, azione sovversiva, enunciazione dell’indicibile che sono stati subito presi dall’ossessione di dare fuoco alla mia persona e al libro.

In questo Paese, per la gran parte, gli artisti sono latrinai che ricordano d’avere la lingua quando devono leccare le suole delle scarpe dei potenti, in cambio dei trenta denari quotidiani. In Italia, autrici e autori di scrittura autentica si contano sulle dita di una mano. Non ci sono pagine di carne e sangue da toccare. Nemmeno d’inchiostro e carta. Bensì di plastica imbrattata da insignificanti, mercificate parole di servitù volontaria. 

La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre” invece incide l’innominabile negli occhi dell’anima di chi lo incontra e legge. E non mi spaventa la certezza che i sionisti manterranno con me un conto sempre aperto.

Nel libro spieghi perché la chiami Rivoluzione e scrivi: «[…] l’atto storico della Resistenza Palestinese ha una potenza offensiva culturale, oltre che militare, sinora mai vista. L’accelerazione improvvisa dello scontro è una concreta possibilità di salvezza, in confronto a una sentenza di morte di massa in quotidiana esecuzione da decenni. Per loro, e per noi che abitiamo altre sponde del Mediterraneo. Una sovversione che va oltre la logica utilitaristica e tatticistica della guerra e non può essere volgarmente chiamata “guerra”. Come per i rari urti che fanno irrompere una nuova concezione dell’umano, va adoperata la parola “rivoluzione”»

Rivoluzione implica quindi travolgere i tabù. Quali sono i tabù che, secondo te, vengono infranti dal tuo libro?

Sono innumerevoli. Però, per facilità, concentriamoci su ciò che è maggiormente evidente anche per l’analfabetismo emotivo e politico di chi cerca di mettermi la “briglia dei muti”. 

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In primo luogo, ho scritto che il 7 Ottobre 2023 prorompe la prima rivoluzione di questo secolo. Il Tūfān al-ʾAqṣā scuote e scuoterà di giorno in giorno l’intero Nord Occidente capitalista fino alla sua dissoluzione. Sarà eterno e cruciale riferimento non solo per i palestinesi, ma per gli oppressi e diseredati dell’intero pianeta.

In secondo luogo, ho ribadito la centralità e l’eccezionalità di Hamas come movimento sociale e di legittima lotta armata che introduce una concezione inedita della donna e dell’uomo nel processo rivoluzionario. Donne e uomini trascendenti, capaci del sacrificio supremo da non intendersi esclusivamente come “martirio”, bensì come dedizione a una causa che supera ogni tipo di aspirazione personale.

Votati a elevare non soltanto sé stessi ma l’intera comunità. In grado di travalicare le ambizioni singolari per la salvezza spirituale e materiale dei figli che verranno. Donne e uomini, per dirla con Yahya Sinwar, la cui «spina dorsale è Resistenza e Intifada». Combattenti con la vocazione all’altissimo vivere che si contrappone alla sopravvivenza, al sottovivere occidentale imposto dai genocidari coloni sionisti.

In terzo luogo, ho descritto la fibra fideistica di questa rivoluzione – che caratterizza tutte le componenti della Resistenza Palestinese, come il marxista Fronte Popolare e il Fronte Democratico, e quindi non unicamente quelle d’ispirazione religiosa come Hamas e Jihad Islamico – volta alla costruzione di una fanoniana «comunità della solidarietà immensa», dell’amore incondizionato tra uguali, e dell’ortoprassi. Dove, per citare Hasan Hanafi, «non esiste un’umanità di classi, né un’umanità di razze», ma donne e uomini rivoluzionari, credenti che vivono «in orizzontale non in verticale».

Per loro «le due dimensioni dell’esistenza sono l’avanti e l’indietro». Non l’alto e il basso. La fede dei palestinesi è nell’avanti. Nell’avanti ci sono concretamente la vittoria, la liberazione, l’avvenire, il mondo nuovo, la giustizia che ha sempre la parola finale. Qui e ora. Non nel lungo, interminabile periodo, come nell’elucubrare del marxismo bianco. Credere significa agire con forza e potenza, oltre sé stessi, oltre ogni immaginazione.

In quarto luogo, ho asserito la fondamentale priorità dell’annientamento dell’entità coloniale e genocidaria d’insediamento occidentale-sionista nella terra di Palestina, in quanto passaggio risolutivo per la liberazione della specie umana dall’efferatezza dell’egemonia globalista capitalistica degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.

A proposito di quest’ultima asseverazione, che faccio da figlio e nipote di profughi e di tante terre lontane, metto in luce un tabù che non sono riuscito a mandare in pezzi. Ossia dover precisare ogni volta l’ovvio a coloro che mi ritraggono, diffamandomi, come un antigiudaico – e li compiango per la loro miseria morale – che non parlo di “distruzione della realtà ebraica”, ma della “mostruosità sionista” che ha trucidato 50 mila, probabilmente 70 mila palestinesi, in un anno.

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Questo è un libro eretico per i contenuti che propone. Anche dal punto di vista stilistico e poetico possiamo affermare la stessa cosa. Già nelle due opere precedenti, La direzione è storta” Per Tutte, Per Ciascuna, Per Tutti, Per Ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimiavevi sperimentato e collaudato la figura dell’autore presente sul campo a dare voce, dignità, memoria agli scartati e ai combattenti delle società del «capitalismo definitivo»che lottano e muoiono esclusi.

Ricordiamo che ne “La direzione è stortasei volontario tra i malati terminali di Covid, abbandonati a morire da soli, e tra i migranti del sud del Mondo imprigionati nei campi profughi di Lesvos, mentre in Per Tutte, per Ciascuna, Per Tutti, per Ciascuno” con una serie di canti corali si restituisce l’identità rimossa ai sovversivi che hanno subito la pena della damnatio memoriae. Qui, invece, ci troviamo di fronte a un’esperienza diversa, totalmente comunitaria.

In questo libro, la parola è azione poetica-sovversiva-corporea-spirituale al servizio della Resistenza intesa come «un solo corpo in volo», usando l’icastica definizione di Shaykh Ahmed Ismail Hassan Yassin, fondatore di Hamas.

I versi, la prosa lirica irrompono nella riflessione storica, nel dialogo politico, nella favola teosofica, nel diario intimo per attraversare la Resistenza, vissuta come valore fondativo della devozione verso la comunità. Divengono spade che spezzano le spade degli oppressori. Preparano – come fiume carsico che esonda – alla più inaudita trasformazione sociale mai avvenuta: la rivoluzione dell’assoluto.

Ne “La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre” chi combatte, a differenza dei due precedenti libri, non è in minoranza o isolato. Può contare su quel legame umano e fideistico, quel vincolo sacro («desmòs» per ribadire un’espressione greca da me invocata ne “La direzione è storta”) che ci tiene allacciati gli uni agli altri e le une alle altre. È un’opera-esperienza pionieristica, tanto violenta fino a toccare le viscere di chi la incontra e legge, quanto incantata e colma d’amore, sino a carezzarne il cuore.

Sul piano stilistico, come accennavi, qui introduci tre novità assolute che vanno ad arricchire la polifonia delle opere precedenti dove hai mescolato pagine di diario, versi, dialoghi teatrali. Ricorri all’apologo, alla lettera rivolta ai resistenti e soprattutto al saggio poetico e antiaccademico.

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Come suggerito da Samed Ismail dei “Giovani Palestinesi”, il saggio poetico mette in pratica l’intreccio inestricabile esistente fra materiale e spirituale. La mia aspirazione è decostruire l’indiscutibile, mortifero strumento occidentale dell’analisi logico-scientifica nel campo della ricerca, e riconcepirlo donandogli finalmente luminosità vitale.

Con la predominanza lirica. Con la coscienza al posto della logica. Col percorso nel tempo dell’essere umano resistente che sostituisce lo storicismo. Col cogito attivo che soppianta il cogito riflessivo e statico. Col linguaggio sensibile, temerario della profezia che si libera dalle codificazioni cifrate per iniziati bianchi, prescelti al sapere. Con l’esperienza diretta, emotiva sul campo di battaglia che disarma le speculazioni, i dogmi atlantisti dell’oppressore, e arma l’oppresso di un nuovo verbo. 

Il saggio poetico rivendica al diseredato del mondo mediterraneo, arabo, islamico, afro-asiatico, il diritto di essere un soggetto storico conflittuale e vittorioso che rovescia il piano verticale della subordinazione. Credo che, in questa scelta di scrittura, risieda il successo del libro non soltanto nella militanza politica tradizionale, ma soprattutto tra giovanissimi studenti ed esclusi delle periferie, schiacciati dall’intollerabile presente del nazi-liberismo.

Nel libro fai spesso riferimento alla folle, criminale rivendicazione collettiva dell’incessante massacro da parte del «perfetto cittadino genocidario della repubblica che, nella migliore delle ipotesi, se ne infischia del sangue palestinese che gli imbratta la pelle pur di mantenere il privilegio d’indebitarsi, ingozzarsi di veleno nella futilità capitalistica e lasciarsi sfruttare fino alla morte»

In questi ultimi 15 mesi, esponenti dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, arnesi vecchi e nuovi della consorteria sionista liberale hanno dimostrato di non avere alcuna considerazione nemmeno per i più elementari fondamenti del vivere umano. Chiamano “legittima difesa” lo sterminio sistematico, le metodiche sevizie di massa, le azioni stragiste su donne e bambini, il ricorso costante allo stupro come arma da parte dell’Ihtilal, dell’illegittima occupazione israeliana.

Abbiamo assistito alla celebrazione televisiva degli ebrei italiani con cittadinanza israeliana, che si arruolano nell’Israel Defence Forces per macellare i civili gazawi e compiere crimini contro l’umanità. 

Abbiamo visto coloro che in passato si travisavano da rassicuranti oligarchi del giornalismo, levarsi la maschera, e mostrare i volti deformati dall’odio verso gli arabi. Quasi emergessero da un’allucinazione lisergica.

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Menziono due esempi di “sfigurati” dalla brama di sangue palestinese, Mieli e Mentana. Celebri ufficiali di comando dell’esercito della menzogna di Tel Aviv. Li abbiamo sentiti inneggiare impunemente e sfacciatamente al genocidio in ogni spazio mediatico, e dipingere come terrorista la Resistenza Palestinese che combatte lecitamente e gloriosamente per la liberazione della propria terra e del proprio popolo.

Li abbiamo ascoltati mentre biascicavano l’identico linguaggio da ultrà di Riccardo Pacifici, ex capo della comunità ebraica romana. Personaggio tragicamente grottesco che si vanta di marciare accanto ai neonazisti da stadio, dopo aver ricordato l’omonimo avo ucciso ad Auschwitz. Dubito che il nonno andrebbe fiero delle sue compagnie, delle sue “gesta”, dei proclami sull’«andare a prendere» chi osa lottare contro il sionismo (e che, guarda caso, dopo quegli inviti allo squadrismo, subisce un tentativo di assassinio, come successo a Gabriele Rubini: alias Chef Rubio). 

In sintesi, abbiamo subìto a reti e siti web unificati la propaganda genocidaria che ha reso di fatto un soldato dello Tsahal tanti giornalisti di questo Paese di fitte tenebre. Quindi parlare di “area sionista”, di massoneria con la stella di David, o di «mafia sionista» -come spesso faccio anche io- è un’eufemia.

Allora quale espressione preferisci usare?

Non abbiamo di fronte soltanto un governo neofascista e sionista, apparati economici, militari, giudiziari, repressivi, mediatici, culturali compartecipi dello sterminio ricorrente dei palestinesi, a sostenere la brutalità della colonia occidentale, usurpatrice della Palestina del ‘48 e della Palestina del ’67. Ma un insieme sionistaun complesso sionista che comprende gli ambiti dell’istituzionale sinistra liberista e liberale, e della sedicente sinistra anticapitalista di movimento per orientare il dissenso, falsificare la Storia in questa nazione, ridotta a un nido di blatte in mezzo al Mediterraneo.

Il mio libro e la mia persona sono stati additati come bersagli sui social media da “illustri” cattedratici sdegnati come Donatella Di Cesare che scrive su quotidiani che portano l’iscrizione “comunista” accanto alla testata. E da autori della “gauche prolétarienne bourgeoise chic” nostrana per case editrici come Derive Approdi.

Propugnatori del genocidio, si spacciano per ex militanti delle lotte degli anni ’70 mentre sono stati soltanto infimi delinquenti, teppistelli con la pistola subito pronti, allo scattare delle manette, alla delazione e a inginocchiarsi davanti al potere che si vanagloriano d’aver avversato.

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E, dentro l’insieme sionista, ci sono anche vili voci della controinformazione che hanno reagito al caso politico, letterario, editoriale de “La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre” col silenzio. Il libro è stato pubblicato quasi contemporaneamente in Italia e in Grecia, è alla quarta ristampa in tre mesi, viene presentato nelle università davanti a grandi platee di studenti che lo hanno già letto e ne discutono pubblicamente, dà luogo a incontri che coinvolgono centinaia di persone da Torino a Bologna, da Milano a Napoli, da Roma a Cagliari. E loro tacciono, non scrivono un rigo.

Vengo linciato mezzo stampa da fogli neofascisti, minacciato ripetutamente di morte da “ignoti” sionisti. Subisco persino intimidazioni e diffamazioni dal vice presidente del Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica, Giovanni Donzelli, che mi accusa d’essere un «esaltatore di attentati terroristici», mentre sui suoi stessi canali pubblica foto dove sfila accanto a croci celtiche e simboli lugubri come i suoi richiami censorii. E loro tengono la bocca cucita.

Non c’è nessuna sorpresa da parte mia. Le mie pagine esplicano chiaramente che in Italia vige “Lo Stato di genocidio”, parafrasando lo storico Vidal-Naquet e il suo celebre saggio del 1963 “Lo Stato di tortura” sulla Repubblica francese dedita alla scientifica carneficina del popolo algerino.

Perché l’Italia è uno Stato di genocidio?

La storia dello Stato italiano, sin dall’inizio del secolo scorso, è segnata dall’abbandonare l’alveo mediterraneo per aderire alla fittizia identità europea. È immersa in fiumi di sangue spanti nei genocidi coloniali e imperialisti.

Per essere “veri”, “puri” europei bisogna saper colonizzare e ammazzare nativi inassimilabili, le esistenze di scarto del capitalismo. E gli italiani hanno così scoperto d’essere brava gente. Gente bravissima a uccidere, come ne attesta la lunga, mai conclusa, esperienza coloniale. La novità assoluta di questi mesi è che l’aberrazione non viene più celata. Ma magnificata dai governanti. Nonché accettata senza un fiato da vasta parte dei sudditi, gli esseri umani «viventi miseramente» tra squallidi privilegi.

Oltre che l’Italia sia uno stato di genocidio per ragioni storiche e per la compartecipazione al genocidio dei palestinesi, ti riferisci alla protezione concessa dal governo Meloni al massacratore di migranti libico, Osama Najeem Elmasry Habish?

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Certo, tuttavia il discorso è più strutturato. Non si limita a un episodio, seppur incredibilmente significativo. Nel mio libro, scrivo che Israele è «il figlio che ha superato il senescente padre europeo e che il senescente padre europeo non solo mitizza e ringrazia, ma prende a modello. […] un figlio così mostruoso, così perfetto nel realizzare una democrazia dichiaratamente genocidaria da divenire punto di riferimento assoluto del sistema liberista occidentale». 

Israele ha oltrepassato la portata di avamposto coloniale occidentale nel mondo arabo e islamico. Da decenni, insegna ai progenitori statunitensi ed europei come si consolida la democrazia d’apartheid liberale, la «suprematista società della distruzione» dove arabi, islamici, migranti, diseredati, dissidenti possono venire oppressi, cancellati qualora non si sottomettano alla mercificazione dell’esistenza, alla schiavizzazione, alla disintegrazione della propria identità in cambio di una cosmopolita identità fittizia. 

In Italia, i neofascisti stanno imparando benissimo la lezione. Ne sono dimostrazione: «la gioia» del ministro della giustizia «nel togliere l’aria» ai prigionieri nei calderoni infernali delle galere italiane dove ci si suicida quasi ogni giorno; l’esultanza di Matteo Salvini per ogni arabo ucciso dalle forze dell’ordine; l’eccitazione omicidiaria dei carabinieri che hanno investito volontariamente Ramy Elgaml senza commettere, a detta del ministro dell’interno, alcuna violazione di regole, protocolli, norme penali; le violenze oltraggiose inferte sulle studentesse musulmane, costrette a levarsi il velo prima d’entrare a scuola a Monfalcone; e, dal punto di vista ideologico, i ripetuti richiami della signora Meloni a una nazione fondata sulle “regole da rispettare”.

Attenzione, regole, non leggi. Regole, non articoli della costituzione. Legge è una norma di condotta etica, sociale o giuridica. Dal greco antico, lègo (λέγω), ossia «dire, esprimere, riconoscere in senso morale». Regola, dal latino regula, è un termine che trae la sua origine nel regolo, l’asticella di legno che calcola le dimensioni dell’oggetto. Col regolo, ognuno misura ciò che desidera, nella maniera che desidera, quando lo desidera. Decide quali siano le giuste proporzioni senza alcuna implicazione etica.

Le regole se le danno anche le organizzazioni criminali. Se la danno anche gli assassini di massa…

Non è un caso che l’entità terroristica israeliana non abbia né una costituzione né un preambolo costituzionale. Ha un brogliaccio di regole che procedono disumanamente per tappe. In base alle esigenze dei saccheggi della colonizzazione e della perdente mira a soffocare la resistenza dei palestinesi, degli altri popoli arabi derubati delle proprie terre, come i libanesi e i siriani.

Non è un caso che la signora Meloni e la banda al governo di questo Paese abbiano fatto convergere il razzismo coloniale, l’odio verso chiunque stia più in basso sui gradini sociali, insito nella cultura italiana, con la formulazione di regole imperniate sulla disparità, sullo sfruttamento civile, sulla demolizione del dissenso. Come il recente Decreto Sicurezza 1660 e altri dispositivi che hanno ricevuto minore attenzione. 

Diviene così palese per chiunque che, dove c’è capitalismo, non può esserci democrazia. Le democrazie costituzionali nelle società liberiste sono un ossimoro. Le costituzioni sono le carte truccate del baro ormai in rovina. Non valgono nulla se non per rivelare che Israele e il Nord-Occidente sono giunti alla fase terminale del capitalismo predatorio e genocidario. Tentano di sopprimere l’umano laddove non sia possibile sfruttarlo, nella vana e ingannevole convinzione di preservare un apparato che è cadavere già in decomposizione.

La Resistenza Palestinese e L’Asse della Resistenza (Miḥwar al-Muqāwama) sono gli ultimi baluardi in difesa dell’essenza sacra dell’umanità.

Questo tuo discorso sulle regole che sostituiscono le leggi è illuminante anche nell’analisi globale. Come è possibile che venga tollerato che i sionisti attacchino sfrontatamente sia le istituzioni internazionali che lo stesso corpus di diritto internazionale? Perché nessuno prende provvedimenti contro Israele?

Voglio risponderti come Sayyed Hassan Nasrallah nel suo discorso del 14 luglio 2006 a Beirut durante la Guerra dei 33 giorni: «Non dirò una parola sulla comunità internazionale perché non ho mai creduto che esista una comunità internazionale».

Nei miei interventi pubblici faccio riferimento alle violazioni delle leggi nazionali e internazionali, scritte dagli stessi imperialisti bianchi, con l’esclusivo intento di rilevare le contraddizioni interne alla società nord–occidentale. 

Gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la minuscola Italia ormai affermano con impudenza la loro estraneità a quegli stessi organismi mondiali grazie ai quali hanno delineato le loro politiche sanguinarie, a cominciare dall’impiantamento della colonia sionista in Palestina nel 1948. Seguono Israele sino all’abisso che lo attende.

È una scelta disperata dal momento che hanno evidentemente perso il controllo delle istituzioni che citi. E soprattutto perché «il Nord Ovest, punto cardinale intermedio e limitato geograficamente» ha fortunatamente contro tutto il resto del pianeta. 

«Non è più l’unica direzione segnata e raggiungibile sulla bussola dei popoli. La Rivoluzione Palestinese del 7 Ottobre ha spezzato l’ago indicatore e ha insegnato un nuovo senso dell’orientamento», come ho scritto. Sarà possibile costruire un’autentica comunità internazionale, riscrivere nuove norme giuridiche mondiali quando Israele sarà completamente sconfitto e sradicato, gli stati arabi suoi complici abbattuti e, ovviamente, dopo il collasso assoluto della struttura coloniale atlantista.

Quel giorno è sempre più vicino. Continuiamo a essere stilla del diluvio rivoluzionario di al-ʾAqṣā, ad allargare le crepe nordoccidentali, a sostenere la Resistenza, il Popolo Palestinese. E la grandiosa, innegabile vittoria del 19 gennaio, ottenuta grazie ai sapienti combattenti, agli innumerevoli martiri di Gaza, della Cisgiordania, del Libano, dello Yemen, dell’Iraq. Alla loro sofferenza, fermezza, coraggio estremi.

Saranno per sempre giganteschi fari per l’intera umanità. Lo sono a prescindere dal martirio, grazie all’andare oltre se stessi per gettare le fondamenta di un futuro abitato dai figli che verranno. Lo sono per la salvezza del genere umano, in una maniera che dobbiamo fare nostra al più presto.

Impariamo ad abbracciare i loro sguardi impetuosi perché, come mi ha detto a Beirut una sorella libanese – che ha scelto di vivere in un campo profughi palestinese – indicandomi gli occhi di un gruppo di ragazzi che sprigionano colori d’intifada, irriducibilità e amore: «Non hanno bisogno di orologi. Reinventano il tempo. Sono l’inevitabile e l’imprevedibile assieme».

* Filippo Kalomenìdis è scrittore, poeta e militante politico. Ha pubblicato “La direzione è storta. Reportage lirico sul Covid-19 e i virus del potere” (2021) e, con il Collettivo Eutopia, “Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno. Canti contro la guerra dell’Italia agli ultimi” (2022). È stato sceneggiatore per il cinema (Io sono con te, 2010) e la televisione (tra le serie di cui è autore, Il Grande Gioco, 2022).

– © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO


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