L’allarme del presidente dell’Ordine, Antonio Magi: «Già ora il numero nel Lazio è insufficiente e il settore non attrae gli studenti»
A criticare apertamente e osteggiare fermamente la proposta di riforma della medicina generale c’è l’Omceo (Ordine dei medici, chirurghi e odontoiatri) di Roma. Una riforma che è invece appoggiata dal ministro della Salute, Orazio Schillaci, e da alcune regioni, in special modo Lazio, Emilia Romagna, Veneto e Lombardia. Le ragioni dell’insuccesso del cambiamento paventato, rispetto all’attuale assetto, sono evidenti per Antonio Magi, presidente dell’Ordine della provincia di Roma: «Dove prima serviva un medico di medicina generale, così ne serviranno due. E se già ci sono carenze oggi, figuriamoci un domani a queste condizioni».
No a diventare dipendenti pubblici
Magi passa quindi in rassegna i punti salienti della riforma. Per primo, il passaggio dei medici di base da lavoratori autonomi a dipendenti del Servizio sanitario nazionale, venendo di fatto equiparati ai professionisti che prestano servizio negli ospedali. «E questo è il primo problema – spiega -. Da anni assistiamo a una fuga degli ospedalieri, soprattutto in determinate discipline, quelle con maggiori rischi e responsabilità. Non è più un settore attrattivo e lo dimostrano anche i concorsi indetti di recente per le assunzioni annunciate dalla Regione nell’ultimo anno. Molto spesso i candidati non arrivano a coprire i posti disponibili».
Branca poco attrattiva
Un discorso che si estenderà inevitabilmente anche ai medici generici. «È già difficile trovarli. Gli studenti di medicina non sono interessati a questo settore. Quasi nessuno vuole fare il medico di base. Figuriamoci se gli si prospetta la possibilità di lavorare il doppio, nello studio e anche nelle case di comunità, ma di guadagnare la metà – prosegue il presidente dell’Ordine -. E invece, per realizzare quanto scritto nella riforma, ne serviranno il doppio degli attuali».
1 milione e mezzo senza medico
I conti sono presto fatti: «Oggi i medici di base lavorano 66 ore settimanali – e lascio fuori il discorso di essere sempre reperibili per i loro pazienti -, da dipendenti ne lavoreranno 38. Quindi per coprire il lavoro che oggi fa uno solo, domani ne occorreranno due. E questo cosa comporterà? Un aggravio di spesa, per le casse regionali, di circa ulteriori 800milioni di euro». Ma la questione nodale al limite dell’insormontabile è dove reperirli e il rischio concreto che oltre un milione e mezzo di cittadini del Lazio non avranno più il loro medico di fiducia.
«In questo momento, nella nostra regione, ci sono 3.500 medici di medicina generale in servizio. E già partiamo con una carenza del 20 per cento – snocciola i dati Magi -. Tra pensioni (entro il 2026 cesserà l’attività il 40 per cento di loro per raggiunti limiti di età) e chi sceglierà di non diventare dipendente pubblico, il prossimo anno si rischia una fuoriuscita di 1.200». A conti fatti ne resterebbero 2.300, ognuno dei quali può prendere in carico al massimo 1.500 pazienti. «C’è poco da discutere sull’evidenza dei numeri: in una regione di oltre cinque milioni abitanti, tre e mezzo sarebbero coperti. Ma il restante milione e mezzo non avrebbe un medico di famiglia. E ne conseguirebbe il crollo dell’intero sistema della sanità pubblica». Anche perché, si chiede Magi, «dove andranno tutti questi cittadini che non hanno a chi rivolgersi? Andranno inevitabilmente ad affollare i pronto soccorso».
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