Foibe: oltraggio alle vittime, pensioni d’oro ai carnefici

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Sabato 8 febbraio, a quarantott’ore dal Giorno del Ricordo, e ottant’anni dall’inizio dei fatti, la foiba di Basovizza a Trieste è stata vandalizzata. Tre le frasi con l’inchiostro rosso: “Trieste è nostra”, il motto usato dai comunisti; “Trieste è un pozzo”, in riferimento alle foibe; “Morte al fascismo, libertà al popolo”.

E poi il numero 161, che sta per AFA, il collettivo antifascista internazionale d’ispirazione comunista. Ma l’oltraggio alle vittime delle foibe viene anche dai riconoscimenti istituzionali e dalle pensioni elargite ai loro carnefici.

L’articolo 2 dello Statuto dell’Ordine  «Al merito della Repubblica italiana», che disciplina il conferimento della più importante onorificenza del nostro Paese, prevede che il Presidente della Repubblica possa conferirla per «benemerenze di segnalato rilievo (…) e per ragioni di cortesia internazionale». La stessa «cortesia internazionale» che nell’ottobre 1969 (con il socialdemocratico Saragat al Quirinale e la Democrazia Cristiana al governo) consegnò la più alta delle onorificenze dello Stato italiano al dittatore Josip Broz, alias il maresciallo Tito, il dittatore comunista, assassino di nostri connazionali.

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Cinquantasei anni dopo, quella medaglia al merito è ancora lì, in palese contraddizione con una legge dello Stato che nel 2004, grazie al presidente Berlusconi, istituiva il Giorno del Ricordo per mantenere viva la memoria dei 10.000 italiani infoibati, della pulizia etnica d’Istria, Fiume e Dalmazia e dell’esodo di 350.000 italiani costretti a scappare dalle loro case. Insomma, mentre ricordiamo la tragedia degli italiani del Nord-Est ancora celebriamo la memoria dell’assassino Tito che li ha infoibati e costretti alla fuga.

In questa legislatura ci sono due proposte di legge, alla Camera, primi firmatari Rizzetto (FdI) e Rampelli (FdI), e al Senato, primo firmatario Bizzotto (Lega), per revocarla post mortem. Sarebbe, infatti, un cavillo burocratico ad impedire di cancellare l’onorificenza di Tito: è morto. La legge già prevede di togliere l’onorificenza per «indegnità», come è stato fatto con al-Assad quando nel 2010 Napolitano gli aveva appuntato sul petto la stessa decorazione di Tito. Eppure, per un misterioso disegno, oltre che per ottusa burocrazia, da decenni, nessuno osa toccare quella medaglia che è un’offesa all’Italia.

La nostra Penisola ha persino strade dedicate al comunista Tito.  Un po’ come se a Berlino, o in qualsiasi altro angolo d’Europa, ci fosse qualche piazza dedicata ad Hitler e nel mentre si celebrasse comunque la Giornata della Memoria. Con l’aggravante che per sessant’anni, in Italia, di foibe non s’è parlato, anche se la storiografia aveva già fatto chiarezza. 

Nella primavera del 1945 il problema di quale sarà il confine tra l’Italia e la nuova Jugoslavia è aperto. E le difficoltà a raggiungere un accordo fanno emergere con tutta evidenza la correlazione tra controllo politico e controllo militare. Tito e il gruppo jugoslavo hanno le idee chiare sin dall’autunno 1943: estendere alle città e alla fascia costiera il controllo che già esercitano in parte delle zone interne. Le indicazioni operative sono chiare: occupare per primi, bandiere slovene e jugoslave, non permettere manifestazioni italiane, rinforzare l’Ozna – la polizia politica partigiana jugoslava –, al grido: «Epurare subito». Sono tutti slavi a tenere il comando, con alcuni italiani di «provata fede comunista».

La pulizia etnica dura dall’inverno del 1943-44 alla fine degli anni Cinquanta. Gli italiani di Fiume, Istria e Dalmazia sono così costretti a lasciare le loro terre, le case in cui erano nati, perché passate sotto sovranità jugoslava, per lasciarsi alle spalle una terra politicamente epurata in nome dei principi dell’intolleranza nazionalista e del comunismo. 

Chi non si sottomette, viene eliminato nelle foibe, quei crepacci naturali, imbuti che sprofondano come un grattacielo a testa in giù fino a 200 metri nelle buie voragini della terra. 

Il modus operandi consiste nel prelevare gli italiani direttamente a casa, condurli in prossimità di una foiba, legarli a gruppi di dieci, a volte quindici, più spesso cinquanta, con un filo spinato ben stretto a stritolare i polsi, il primo della fila viene fucilato tirando giù con sé, per cento e poi duecento metri, gli altri della fila, che ancora vivi, moriranno di stenti dopo giorni di agonia, inghiottiti dalla terra.

Grazie soprattutto alla Chiesa cattolica in 350.000 riusciranno a non esser infoibati, ma a lasciare l’Italia o raggiungere altre regioni.

La Chiesa, divenuta il riferimento naturale in un clima di terrore ed incertezza, avrà anche la precedenza nell’essere perseguitata da Tito. Le chiese distrutte e i sacerdoti picchiati, seviziati, ammazzati e mandati nei campi di lavoro non si contano: la Chiesa partorirà tanti martiri in quegli anni. 

Chi riuscirà a salvarsi, sarà perché quegli “uomini vestiti di nero” – come li chiamavano i comunisti in sprezzo della talare – creeranno, con i modesti mezzi del tempo, una rete capace di collegare le parrocchie di tutta Italia, e oltre i confini nazionali: saranno soprattutto gli Stati Uniti ad accogliere gli italiani epurati da Tito. 

Malgrado fossero artefici di stupri, sevizie e torture, e dell’esodo di trecentomila italiani, i soldati di Tito non solo non sono mai stati processati, ma hanno percepito, fino alla morte, una pensione pagata dall’INPS.

Per inquadrare i termini del fenomeno delle «pensioni in regime internazionale» pagate nella ex Jugoslavia sono utili alcuni numeri: più di 50.000 le domande presentate, oltre 35.000 quelle accolte.

Pensioni erogate a soggetti che possono vantare un periodo di servizio militare – per alcuni di un solo giorno – sotto lo Stato italiano in quanto erano residenti, all’inizio della guerra, nei territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia in seguito al Trattato di pace: il fatto abnorme è che tutti questi pensionati siano cittadini ex jugoslavi, che, al servizio di Tito già nel 1943, sono stati i protagonisti del genocidio degli italiani dell’Istria, di Fiume, della Dalmazia e della parte strappata alle province di Trieste e Gorizia.

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Per chiedere la revoca immediata di pensioni elargite ai boia degli italiani, dagli anni ’90 sono state presentate interrogazioni, anche al parlamento europeo, e sollecitate inchieste parlamentari fino al 2019 – a dimostrazione che le pensioni d’oro, tra una reversibilità e l’altra, sono ancora dispensate. 

Per sessant’anni una pagina di storia patria è stata strappata dai libri e dai circuiti della storiografia ufficiale per non infangare il mito della resistenza e dei partigiani liberatori. Eventi eliminati o giustificati. Infatti, per i partiti della sinistra, le vittime erano nient’altro che fascisti che non hanno accettato il comunismo reale jugoslavo.


 




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