De Bortoli cittadini da salvare

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di VITTORIO ROIDI

Il praticantato lo cominciò nel “Corriere dei ragazzi”, nel 1973, mentre in quello “della Sera” fece il direttore dal 1997, in due periodi, per dodici anni, come successore di Paolo Mieli, che lo aveva allevato e tirato su. Una carriera che non ha paragoni, quella di Ferruccio de Bortoli. Tante sono le vicende che i milanesi non possono aver dimenticato: limitiamoci a citare lo scontro con Massimo d’Alema, che lo portò in tribunale accusandolo di aver provocato “danni all’Ulivo”; le storiche battaglie con Silvio Berlusconi e il suo impero mediatico. Poi, per altri sei anni, c’è stata anche la direzione del Sole 24 Ore.

De Bortoli, è una delle figure più rappresentative del nostro giornalismo, anche se all’Ordine professionale non lo hanno mai chiamato, chissà perché. Accetta di discutere, adesso che per l’Ordine si va a votare, su cosa possiamo fare per salvare il nostro mestiere.

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“Con le prossime elezioni di marzo si può cambiare strada, almeno lanciare un segnale? Oppure serve una legge che cancelli quella che istituì l’Ordine nel 1963?

“Fino a poco tempo fa ero assolutamente convinto che fosse necessaria una nuova legge della comunicazione, ma negli ultimi tempi ho cominciato a pensare che ciò non solo sarebbe impossibile ma addirittura controproducente, perché sarebbe una legge controvento e il vento oggi è impetuoso. Negli ultimi tempi, paradossalmente, la difesa del cosiddetto ‘free speech’ del Primo emendamento della Costituzione americana, caposaldo del giornalismo d’inchiesta anglosassone, inteso come cane da guardia del potere, ecco, questa libertà di parola è diventata una sorta di punto fermo della destra conservatrice americana. Perché questi signori non solo posseggono le piattaforme, ma ne dettano le regole e addirittura i fatti. La mia preoccupazione è che se noi avviamo una riflessione su una nuova legge per la comunicazione ciò possa sembrare agli occhi dell’opinione pubblica come una difesa corporativa da parte nostra, come di un monopolio dell’informazione. Però allo stesso tempo dico che è necessario fare una battaglia culturale per difendere la centralità di un giornalismo che garantisca al cittadino un’informazione credibile e autorevole. Noi le regole le abbiamo e dobbiamo esserne anche orgogliosi, perché altri paesi non le posseggono. Di fronte alle sfide dell’Intelligenza artificiale – proprio domani si apre un importante vertice in cui si discuterà della necessità di riconoscere il diritto d’autore – oggi dovremmo fare una battaglia a difesa dell’informazione degli utenti, perché il ‘free speech’ senza regole e senza responsabilità è semplicemente il potere del più forte di imporre l’agenda di una democrazia”.

L’Ordine è uno strumento che può essere utile per portare avanti un simile battaglia?

“Penso che non ci si possa più difendere con gli strumenti corporativi di un tempo, che non hanno più ragione d’essere. Sono convinto che l’Ordine dei giornalisti debba apparire sempre di più come una difesa della qualità dell’informazione e dello stesso utente. E non come qualcosa a cui si aggrappa il professionista, come a una sorta di rifugio dei propri peccati. Penso che la categoria debba anzitutto dimostrare all’opinione pubblica che non teme le tecnologie (che crede di dominare perché commenta). La mia proposta è questa: una sorta di impegno morale, il giornalista che riconosce se ha commesso degli errori, che lo dice. E nelle forme che riterrà più opportune si pone il problema di restituire la dignità alla persona che è stata coinvolta in fatti di cronaca o fatti giudiziari di un certo tipo. In una democrazia, la pubblica opinione deve essere avvertita e responsabile. Invece i giornalisti si accorgono che siamo in una fase in cui si rischia di perdere la libertà di stampa, quella vera utile per la libertà dei cittadini. Dunque essi devono assumere un impegno morale superiore, nel senso di dire ‘noi cercheremo di essere ancora più attenti, cercheremo anche l’impegno di restituire ciò che è stato tolto’. Oggi siamo in una fase sociale in cui molti non fanno giornalismo professionale, ma fanno comunicazione. Allora noi possiamo fare una sorta di ‘Carta della responsabilità’. L’opinione pubblica rischia di essere trasformata in un insieme di sudditi o peggio di naufraghi. UnaCarta’ di questo tipo mostrerebbe l’esistenza di un giornalismo fatto da cittadini responsabili oltre che da professionisti validi”.

Finora stiamo parlando di noi, siamo dalla parte dei giornalisti….. 

“Che sta diventando marginale, qualche volta perfino inutile… però andare nella direzione che dicevo significherebbe dire ai cittadini: ‘Ci rendiamo conto che voi potete non essere informati, ora c’è anche l’Intelligenza artificiale, noi ci sentiamo responsabili, vogliamo essere maggiormente interpreti, per la parte che ci riguarda”.

Però dobbiamo guardare anche agli altri interpreti… non possiamo non parlare degli editori, che conosci bene, perché il fallimento è il loro fallimento, le copie perse, gli ascolti che calano, le aziende sempre sull’orlo della chiusura, quello del sistema economico, cioè degli imprenditori, degli industriali del settore, i quali non sembrano molto interessati alle notizie.

“Se avvenisse ciò di cui parliamo, il lettore potrebbe però distinguere fra il giornalismo di qualità e quello dei falsari… e penso che gli editori professionali (che hanno anche il problema di essere affidabili e credibili e che hanno difficoltà di tanti tipi) potrebbero aderire alle nostre posizioni, distaccandosi invece da certe forme di informazione. Certo è una lotta pressoché impari, dalla quale noi tuttavia noi non possiamo scomparire, delegittimandoci e trasformandoci in qualcosa che non fa parte della nostra professione. E abbiamo altre battaglie da fare, perché vogliamo sempre trovare la verità, ad esempio quella del giornalismo giudiziario. Oggi siamo stati limitati, non c’è dubbio, esclusi da certi spazi di accesso, con interventi che ritengo siano stati temerari. Mentre è chiaro che queste questioni andranno regolate diversamente”.

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Ci vorrebbe un lungo discorso anche sulla pubblicità, che si mescola con le informazioni, le condiziona, le inquina.

“Ci sono trasformazioni in atto che hanno reso le barriere con la pubblicità così sottili da essere praticamente scomparse. Dobbiamo guardare la moltiplicazione di questi eventi, le case editrici si sono trasformate in organizzatrici di eventi. Vedo con una certa preoccupazione il giornalista che viene impiegato in un ruolo che non è il suo. Dobbiamo essere più orgogliosi e gelosi della condizione del giornalista professionista, stiamo cedendo spazi ad altri. Poiché le case editrici hanno un conto economico sempre precario, spesso capita di parlare con imprenditori che ci ritengono comprabili a basso costo. Ciò mi crea un disagio enorme. Ci sono conflitti d’interesse assolutamente inaccettabili. Noi dobbiamo fermare tutto questo, dire ‘no, questo non si può fare’.

Tu ancora dici noi, ma noi chi, chi può farlo?

“La mia proposta è quella di fare questa ‘Carta del giornalista’, di fronte alla sfida dell’Intelligenza artificiale e al cambiamento dei rapporti di potere nell’informazione. Anche per attrarre un po’ di più i giovani, perché non siamo più attrattivi. Al di là del fatto che abbiamo splendidi freelance che hanno descritto anche queste guerre, hanno messo in pericolo la propria vita e qualche volta l’hanno persa. Essendosi un po’ proletarizzata la professione è poco attrattiva per i talenti migliori”.

Un’altra cosa che abbiamo perso è la credibilità. Non c’è più, come faremo a recuperarla?

“Un grande problema. Eppure la digitalizzazione porta a capire che l’unico nostro valore aggiunto è la credibilità e l’indipendenza. Dobbiamo fare uno sforzo e ricordare che siamo quelli ai quali è affidato il compito di nutrire la pubblica opinione affinché sia libera, sia accompagnata dal dubbio e abbia spirito critico, perché così si salva la democrazia. La democrazia rappresentativa si salva grazie a una classe giornalistica che ha tutte le opinioni possibili, le più diverse, ma che sa fare il proprio mestiere, ha il coraggio di dire alcune cose, che non si fa prostituire attraverso attività parapolitiche per coprire i conflitti di interesse. Manca uno scatto di orgoglio della nostra professione, siamo scomodi a tutti. C‘è nel nostro paese una trasformazione, una torsione autoritaria che passa ormai dall’idea del giornalista fiancheggiatore”.

Tu credi che questa trasformazione possa avvenire con la partecipazione dello Stato – non posso che chiamarlo genericamente così – in un fase politica durante la quale spesso il Presidente Mattarella dice che il giornalismo deve essere tutelato.

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Ci dobbiamo tutelare da soli perché non credo che il Parlamento sia in grado di fare alcuna legge. Anzi, rischiamo addirittura di veder fare una legge che limita la nostra libertà, perché è quello che è accaduto per la cronaca giudiziaria. In più c’è una tendenza a dire che sarebbe meglio non avere l’intralcio di un’informazione libera, che fa delle inchieste, che pone dei problemi. Per fortuna c’è ancora qualcuno che fa delle inchieste, che pone dei problemi. Per fortuna in questi giorni stiamo discutendo anche di cose che sono uscite grazie al lavoro di alcuni giornalisti. La riforma dell’Ordine? Ma quale? Il codice deontologico, fatto di 40 regole, cosa ha cambiato? Molti pensano che sia un vestito troppo vecchio che mal si adatta alla nuova conformazione professionale. Manca, io trovo, un momento di orgoglio per la professione come baluardo per la democrazia rappresentativa”.

Vorrei farti un’ultima domanda. E’ il problema del rapporto fra i giornalisti e i politici. Ma pongo solo il tema, un’analisi più profonda la rimandiamo, però almeno un accenno, una battuta, perché molti lettori ricorderanno le tue feroci battaglie con Silvio Berlusconi……

“Ma Berlusconi oggi sembra un liberale! Questa classe politica… è una classe politica che così come trova una maggioranza sempre più allargata contro i magistrati, troverebbe una maggioranza ancora più allargata contro i giornalisti. E poi, voglio ricordare: la cattiva informazione certo ha fatti dei danni, ma vogliamo parlare dei danni della ‘non informazione’? Della scarsa trasparenza, dove prevale il sopruso, la prepotenza. I conti della non informazione sono devastanti, ben oltre quelli della disinformazione. Purtroppo, ripeto, oggi non abbiamo più l’orgoglio della professione… siamo in ritirata, ci nascondiamo, ci rifugiamo dietro lavori che sono diversi, il comunicatore, il manager. Come se in questo momento non fosse importante fare bene il nostro mestiere. E invece è proprio il momento storico in cui abbiamo bisogno di giornalisti coraggiosi e preparati, molto più di prima”.

(nella foto, Ferruccio de Bortoli)



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