L’intervista a Brunori Sas, in gara al Festival di Sanremo 2025, pronto al debutto sul palco dell’Ariston e con sé porta la sua Calabria. «Non partecipo per vincere, essere qui è un atto di coraggio»
È un debutto quello di Brunori Sas che, dopo 15 anni di carriera, per la prima volta approda al Festival di Sanremo con il brano “L’albero delle noci”. Un brano dedicato a sua figlia e che mette in evidenza anche il legame con le sue radici. E non solo, il 2025 di Brunori Sas è l’anno delle prime volte: oltre al Festival c’è un tour che toccherà anche il Circo Massimo di Roma e l’Arena di Verona con due appuntamenti assieme alla sua band storica e all’orchestra. E poi c’è un album, in uscita il 14 febbraio, che prende il titolo proprio dal brano sanremese, e che contiene una canzone scritta per la prima volta in dialetto calabrese. Lingua di quella Calabria «terra crudele», per dirlo con le parole della sua canzone, dalla quale Dario Brunori non si allontanerà mai. È lui stesso a raccontarcelo in questa intervista dove svela anche come sta vivendo l’esperienza del Festival di Sanremo.
Brunori Sas a Sanremo, te lo saresti mai immaginato?
«Probabilmente no fino a qualche anno fa, ma penso questo sia il momento giusto per mettermi in gioco e intercettare con la mia musica un pubblico più ampio. In fondo, Sanremo è una delle poche vere liturgie collettive che ci sono rimaste in Italia: mi incuriosiva viverla dall’interno, provare l’adrenalina del “debutto” con diversi anni di carriera alle spalle».
Con quale spirito stai vivendo questa esperienza?
«Con leggerezza e curiosità. Per quanto sia una macchina imponente, non voglio perdermi il gusto di vivere Sanremo con spirito leggero, godendomi il momento senza troppa ansia da prestazione».
In gara porti “L’albero delle noci”. Cosa rappresenta per te questo albero?
«Un simbolo di radicamento e di continua evoluzione. È di fronte casa mia da oltre tredici anni: lo vedo cambiare con le stagioni, resistere al vento, rinascere ogni primavera. Mi fa riflettere sul tempo che passa e sulla vita che si trasforma. Da quell’albero è nata la canzone, quasi spontaneamente, come se fosse sempre stata lì in attesa di essere scritta».
Il brano racconta dell’essere padri e della rivoluzione che porta nella vita ma anche la paura dell’essere genitori. Ce ne parli?
«Diventare padre è un evento che ti segna, cambia la prospettiva su tutto. C’è la gioia immensa, a tratti incontenibile, ma anche il timore di non essere all’altezza, di non saper proteggere a sufficienza chi ami e di poter perdere quella felicità. L’albero delle noci nasce proprio da questo sentimento bifronte: una felicità così grande da farti quasi paura, un amore che ti espone, che ti rende vulnerabile».
Nel brano dici: “E nei tuoi occhi di mamma adesso splende una piccola fiamma”. Tua figlia si chiama Fiammetta, cosa pensa di questa canzone? Le piace? La canta?
«La canticchia alla sua maniera, stravolgendo e inventando le parole, una cosa che mi diverte e mi emoziona insieme. Poi quando arriva il verso “splende una piccola fiamma”, si illumina e si indica con il ditino, “Sono io!”: ogni volta una valle di lacrime, che te lo dico a fare!».
E del papà a Sanremo?
«La prende con quella leggerezza e spontaneità tipica dei bambini, senza preoccupazioni. La guardo e un po’ la invidio».
Ne “L’albero delle noci” racconti anche il tuo attaccamento alle tue radici. Calabrese doc e in ogni occasione non smetti mai di ricordarlo e di citare la tua terra nella quale continui a vivere. Hai mai pensato di lasciarla?
«Se ho pensato di lasciarla, alla fine sono sempre tornato. È la terra di cui ho bisogno per rimanere in equilibrio, per avere un punto fermo».
Nel brano c’è anche un verso: “sono cresciuto in una terra crudele”. Con te la Calabria è stata crudele? E se sì, perché?
«Lo è stata nel suo essere una terra di contrasti, dove la bellezza convive con le difficoltà, dove il senso di appartenenza si scontra con il desiderio di esplorare altro. È un rapporto viscerale, di amore e di disillusione».
La canzone continua: “Sono cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele”. Per i cosentini è facile capire di cosa si tratta, come spiegheresti invece la scirubetta a qualcuno di Pordenone?
«Poetica nella sua semplicità, la scirubetta è neve fresca con sopra un filo di miele: un dolce povero, che racconta la bellezza dell’essenziale. Un’immagine che rappresenta perfettamente la Calabria, terra dura ma capace di sorprenderti con gesti di inaspettata dolcezza».
“L’albero delle noci” è anche il titolo del tuo nuovo album al quale hai dedicato ben due anni. Che lavoro c’è dietro?
«Di sottrazione e di continua ricerca: ho lavorato per eliminare il superfluo, andando a fondo nelle emozioni senza troppe sovrastrutture. In questo ho avuto il privilegio e la fortuna di lavorare con Riccardo Sinigallia, che mi ha spronato a non fermarmi mai alla prima idea, a scavare sempre un po’ più a fondo».
E cosa ne è uscito fuori?
«Un disco sincero, che mi rappresenta totalmente, commovente ma non in maniera retorica. Dieci tracce che esplorano il senso del tempo, la paura di perdersi e la bellezza di ritrovarsi. Alcuni brani li ho lasciati nella loro versione più grezza, registrati al cellulare, perché avevano qualcosa di speciale che sarebbe andato perso se li avessi rimaneggiati in studio».
Il 2025 per te è l’anno delle prime volte. Tra queste c’è anche un brano, per la prima volta, in dialetto cosentino: “Fin’ara luna”. Ce ne parli?
«Sognavo di fare un album tutto in dialetto, ora c’è una canzone con un grande potere evocativo. Nato durante il periodo del Covid, “Fin’ara luna” è un brano che mi tocca particolarmente, il commovente canto di un anziano che ha perso il suo amore».
Tornando al Festival, nella serata cover e duetti canterai “L’anno che verrà”. Come mai questa scelta? E perché hai deciso di farti accompagnare da Sinigallia e Dimartino?
«È un brano che sento molto vicino, ad un tempo popolare e d’autore. Proporlo sul palco dell’Ariston con due artisti che stimo profondamente, Riccardo e Antonio, dà a quest’esperienza un tono più familiare, un po’ come quando si suona a casa tra amici».
Ti auguri di vincerlo questo Festival?
«Non partecipo con l’obiettivo della vittoria: per me Sanremo è un atto di coraggio, a motivarmi è l’idea di mettermi in gioco e di poter puntare su un progetto a cui ho lavorato duramente il riflettore più potente che c’è in questo momento sulla musica».
C’è qualcuno dei tuoi colleghi in gara a Sanremo per il quale fai il tifo?
«Ce ne sono diversi che stimo, se devo fare un nome dico Lucio Corsi. È un artista di grande talento, con un immaginario unico, una scrittura raffinata e apprezzo moltissimo il suo modo di stare nella musica».
La Calabria tifa tutta per te. Vuoi mandare un messaggio ai tuoi conterranei?
«Vi sento, vi leggo, vi ringrazio di cuore. È come se la Calabria fosse in qualche modo sempre con me, in ogni cosa che scrivo e canto».
Dopo Sanremo un tour che oltre ai palazzetti e alle date estive prevede due eventi: Circo Massimo di Roma e Arena di Verona. Altre due prime volte…
«Sono due appuntamenti davvero speciali, una tappa importante nel mio percorso live. Il Circo Massimo e l’Arena di Verona sono luoghi carichi di storia e significato, pensare di portarci la mia musica mi emoziona e l’accompagnamento orchestrale renderà tutto ancora più magico. Non mancherà il brivido che ti prende quando realizzi la grandezza di certe occasioni, ma l’emozione più forte sarà quella di condividere la musica con le persone che mi seguono da sempre e con chi magari mi scoprirà proprio in questa nuova dimensione».
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