La maggioranza litiga sui medici di famiglia

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Non sono bastate due ore di vertice a Palazzo Chigi per trovare un accordo di maggioranza sulla riforma dei medici di base. Al tavolo c’erano tutti i big, dalla premier Giorgia Meloni ai suoi vice Antonio Tajani e Matteo Salvini. Presenti anche il ministro della salute Orazio Schillaci e quello dell’economia Giancarlo Giorgetti, più i presidenti di regione Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia-Giulia), Francesco Rocca (Lazio) e Alberto Cirio (Piemonte).

Né il governo né le regioni si sono presentati con una posizione condivisa. Il nodo del contendere è la trasformazione dei medici di medicina generale, attualmente liberi professionisti, in lavoratori dipendenti del Ssn al pari dei loro colleghi ospedalieri con un orario di lavoro settimanale di 38 ore e una scuola di specializzazione all’ingresso. Non è una questione meramente sindacale. Il ministero della salute e diverse Regioni tra cui Lazio, Veneto e Toscana appoggerebbero la statalizzazione per facilitare la migrazione dei 37 mila medici di medicina generale dagli studi privati – la cui inadeguatezza è diventata palese durante la pandemia – alle case di comunità, le mille strutture socio-sanitarie che secondo il Pnrr dovranno entrare in funzione entro il 2026. Una bozza di riforma in questo senso è stata pubblicata dal Corriere della Sera, senza smentite né conferme dal ministero della salute.

Nella maggioranza, Forza Italia però è contraria all’ipotesi della dipendenza. Tajani, pur influenzato, non ha rinunciato al vertice per ribadirlo. Anche Fi ha una proposta, un ddl già depositato in Parlamento che mantiene lo status di lavoratore autonomo ai medici ma con 18 ore settimanali (sempre su 38) da dedicare alle Case di Comunità. «Proponiamo di raggiungere gli stessi obiettivi» previsti dalla bozza della Salute, «ovvero garantire una maggiore copertura dei medici di famiglia sul territorio, ma attraverso un meccanismo diverso, su cui vogliamo aprire un confronto» ha detto il portavoce forzista Raffaele Nevi, una posizione condivisa anche da Lombardia, Piemonte e Calabria. La divisione è tutta nelle parole di Fedriga: «c’è un confronto dentro la Conferenza delle Regioni e il Governo lo farà al proprio interno».

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Tra i medici, invece, chi alza la voce lo fa solo per opporsi all’ingresso della medicina di famiglia nella sanità pubblica. I più arrabbiati sono i membri laziali della Fimmg, il principale sindacato dei medici di base, schierato con la proposta di Forza Italia. Da ieri, a ogni prescrizione i medici hanno allegato una lettera per i loro assistiti dall’incipit terrorizzante: «vogliono togliervi il vostro medico di fiducia». La missiva contiene le proposte avanzate dalla Fimmg come l’attività diagnostica di base direttamente negli studi medici e il lavoro di équipe, più varie critiche feroci alle Case di comunità, dove «ci vorrebbero trasferire tutti a fare chissà cosa, dimenticando che un vero medico di famiglia (purtroppo, ma anche per fortuna) lavora molto più di 38 ore settimanali!!!». Conclusione orwelliana: «vogliono farci fare i dipendenti per poterci controllare meglio».

Quando parlano degli «interessi dei gruppi privati che vedono la sanità territoriale come il prossimo affare» i medici però indicano un rischio reale. I governi Draghi e Meloni hanno diminuito il numero di case di comunità previste nel Pnrr da 2800 a circa mille, cioè una ogni sessantamila abitanti, dirottando altrove fondi inizialmente destinati alla sanità pubblica. Se la loro apertura coincidesse con la chiusura degli studi medici, intere comunità soprattutto nelle aree interne meno collegate potrebbero rimanere senza medicina di prossimità. A quel punto sarebbe la sanità privata, a spese degli assistiti, a fornire l’unica alternativa al pronto soccorso. D’altronde i medici di base scarseggiano già oggi a causa di una carriera decisamente meno attrattiva. Mentre uno specializzando pubblico riceve di una borsa da 1700 euro al mese, chi intraprende la carriera da medico di base si accontenta di meno di mille. Non sorprende che rispetto a dieci anni fa i medici di famiglia siano il 20% in meno e che le nuove vocazioni non bastino a rimpiazzare i medici che vanno in pensione. Né il governo Draghi né quello Meloni hanno pensato di accompagnare con investimenti sul personale il Pnrr che garantiva fondi solo per le infrastrutture. La desertificazione sanitaria non riguarda solo le aree interne: secondo una ricerca di Altreconomia, nella sola Lombardia 160mila residenti sono privi del medico di base. È quello che succede quando il governo nega le risorse per realizzare una riforma attesa da anni.



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