Fra tante cose, si dovrebbe ricordare che il gioco del polo ha aggiunto la parola ‘sport’ a quello che oggi conosciamo come sportswear. La prima polo – un pullover bianco a maniche corte in jersey di lana con colletto ripiegato – fu progettata a inizio Novecento. Sembra che qualche anno prima – nel 1896 – l’americano John E. Brooks si sia trovato ad ammirare i bottoni nascosti che fissavano i colletti dei giocatori di polo inglesi. John E. Brooks era uno dei cinque figli di Henry Sands Brooks, il quale nel 1818 aveva fondato l’azienda di abbigliamento H. & D.H. Brooks & Co, poi ribattezzata Brooks Brothers. Tra i vanti del marchio si citano il guardaroba dello scrittore F. Scott Fitzgerald, i completi del presidente James Madison e le uniformi dell’esercito dell’Unione durante la Guerra Civile. Lo stesso Theodore Roosevelt insistette affinché l’unità militare dei ‘Rough Riders’ fosse equipaggiata dai Brooks Brothers. Anche il cappotto di lana nera che Abraham Lincoln indossò per il suo secondo discorso di insediamento venne realizzato dai Brooks Brothers. Controllando l’interno di un qualsiasi capo Brooks Brothers, si legge la dichiarazione “la polo originale”. Benché la polo, per come la conosciamo oggi, abbia avuto origine sui campi da polo, con una forma e una struttura elasticizzata che seguivano la forma stessa dei giocatori, il termine “polo” – si perdoni la ridondanza – si accostava allora a più indumenti: maglie, maglioni e perfino cappotti, a indicare una moda dalla connotazione elitaria – come del resto la disciplina equestre cui faceva riferimento – e sportiva.
Prima del 1926 nessun tennista aveva mai pensato di presentarsi a bordo campo con qualcosa di diverso da una camicia bianca inamidata, con maniche occasionalmente risvoltate. Nessuno, fino a quando il grande tennista francese René Lacoste, “Le Crocodile” in persona, non vinse il Campionato Nazionale degli Stati Uniti indossando una polo bianca che portava il suo marchio di fabbrica: un coccodrillo verde stampato sul petto. Fu un passo audace verso quello che oggi consideriamo l’archetipo del completo da tennis. Nel 1933 René Lacoste entrò in affari con un’azienda produttrice di maglieria perché la chemise Lacoste – un pullover a maniche corte con colletto abbassato, tre bottoni sulla paramontura e un corpo in cotone piqué traspirante – venisse consegnata alla grande distribuzione. Le pubblicità “rettiliane” esaltavano l’idoneità sportiva del capo, ma non solo: era adatto a le tennis ma anche a la plage, ai tracciati di atletica e ai viali della Côte d’Azur. La linea che da qui conduce al Casual Friday è piuttosto diretta.
Nel 1952 fu la volta di Fred Perry: il tennista britannico fece realizzare una polo personalizzata con una corona d’alloro sul petto e due righe di bordatura sul colletto. Nei decenni successivi un certo lembo della gioventù britannica – si legga alle voci mods e skinhead – avrebbe attinto all’armadio di Fred Perry. Evidentemente, non erano loro sfuggite le origini ‘di strada’ di Perry, eroe della classe operaia per aver risposto a chi, all’All England Club, lo guardava dall’alto in basso. I Perry Boys sconfessarono le origini della polo, e fecero del capo e dello sportswear fondamenti anti-elitari. Chi invece, oltreoceano, avrebbe fatto della polo in cotone con colletto a coste l’effigie del Preppy Look – ovvero l’uniforme dei preppies, i giovani americani delle università private d’élite degli Stati Uniti (le Ivy League) – sarà Ralph Lauren.
Negli anni Settanta le polo di Ralph Lauren arrivarono in una varietà di colori e stampe forse poco adatte al campo – fino agli anni Cinquanta quelle del rivale Lacoste erano prodotte solo in bianco. D’altra parte, furono apprezzate dai circoli universitari e dai country club. La polo raggiunse il suo apice come simbolo di appartenenza al preppy fra gli anni Settanta e Ottanta: entro gli anni Novanta lo stile Ivy League era entrato nei grandi magazzini come moda di massa. Nel 1982 Izod, il distributore di Lacoste negli Stati Uniti, aveva venduto maglie per un valore di quattrocento milioni di dollari. In seguito, i progressi della tecnologia hanno favorito cambiamenti negli standard del decoro: ed eccoti qui mentre indossi una polo per una sontuosa cena fuori. Così la polo è diventata un capo base per le uniformi (quasi) ovunque. Può essere più o meno formale, elitaria o anti-elitaria. Un classico, in senso calviniano, che – facendo una solida media – torna nel circolo delle tendenze ogni due anni. Lo ha fatto nel 2023, quando Miuccia Prada ha incluso la polo in trentacinque dei sessantadue look della Primavera Estate 2024 di Miu Miu. Lo fa nel 2025, innovando il proprio look.
Per essere un capo di abbigliamento tradizionale, la polo è sempre stata piuttosto ‘trasformativa’. Negli anni Novanta è stata abbracciata dal movimento di strada dei Lo Lifes di New York, nei primi Duemila dagli artisti hip-hop, mentre negli anni Dieci è stata inglobata dal mondo normcore. Oggi la tradizione viene mantenuta dai brand del coccodrillo e del cavaliere in sella – Lacoste e Ralph Lauren, parliamo di voi – ma si ritrova, inaspettatamente, anche nelle collezioni di brand eversivi come Avavav – la sfilata è stata concepita come uno sbeffeggio all’attuale ossessione per tutto ciò che è sportivo. D’altra parte brand come Federico Cina, Emilia Wickstead e Gucci hanno ampliato la proposta cromatica, adattando la polo alle nuance di stagione – verde oliva, azzurro e rosa pastello, sabbia, terra e cioccolato – con interessanti contrasti di colore fra bottoni-cuciture-colletti e tessuti.
Da Miu Miu, Fendi, Versace e N°21 il raggio si è esteso ulteriormente con look stratificati, motivi a pois, a righe o zig-zag. Con Prada le maniche della classica polo si sono fatte a sbuffo, con Acne Studio il tessuto si è arricchito di applicazioni svolazzanti, con Loewe gli orli sono stati sostituiti da lunghe code di tessuto incrociate sul davanti. Hermès ha licenziato i bottoni in favore di chiusure a lampo, Chet Lo li ha omessi del tutto nel suo collo a V. Ridurre la polo ai suoi elementi essenziali e darle un nuovo inizio? Questa sembrerebbe l’idea.
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