Mentre si continua a ragionare di invasione turistica delle montagne, di limiti, opportunità e rispetto dei luoghi, le webcam puntate sull’Appennino ci mostrano in tempo reale che oltre i 1500 metri è tutto imbiancato. Ma la neve ormai non è più una certezza.
Come spiega su L’Altramontagna Mauro Varotto, il futuro dello sci appare sempre più incerto. Su 101 comprensori, il 41% risulta già abbandonato, mentre il 32% è attivo solo a intermittenza, avendo chiuso per almeno sette degli ultimi dieci anni. Solo il 28% degli impianti resta in funzione, tra cui l’Alto Sangro-Roccaraso-Rivisondoli, il più esteso dell’Appennino con 90 chilometri di piste comprese tra i 1300 e i 2100 metri, e il quarto per dimensioni a livello nazionale.
Sono le percentuali che emergono dalla ricerca Winter is coming for ski resorts: insights from the Apennines (Italy) firmata da Giuliano Bonanomi – docente di patologia vegetale al Dipartimento di Agraria dell’Università Federico II – insieme ai suoi collaboratori: Mara Gherardelli, Sabrina Spigno e Mohamed Idbella.
Un’analisi che fa il punto sulla situazione degli impianti e sulle proiezioni climatiche dei prossimi decenni. Abbiamo deciso di riproporla integralmente – tradotta – perché l’unico impianto sciistico della Campania, vale a dire il comprensorio Laceno-Bagnoli Irpino, potrebbe essere tra i primi a chiudere, nonostante i nuovi impianti da discesa libera stiano per tornare in funzione dopo 7 anni di stop.
Nell’analisi si evidenzia proprio come la crisi colpisca prima le stazioni sciistiche a quote più basse e di dimensioni ridotte, sottolineando una correlazione diretta tra altitudine, estensione e capacità di resistenza degli impianti. Perciò il monito appare chiaro, prima di pianificare nuovi investimenti nello sci appenninico, è essenziale valutare attentamente questi dati e le loro implicazioni sul lungo periodo.
L’inverno sta arrivando per le stazioni sciistiche: spunti dagli Appennini (Italia)
L’abbandono delle stazioni sciistiche è più frequente a causa del riscaldamento globale, che riduce progressivamente il manto nevoso e la sua persistenza. Tuttavia, sono proliferati i progetti per la costruzione di nuove stazioni sugli Appennini. Investimenti economici rischiosi, soprattutto in assenza di dati a lungo termine sulla durata del manto nevoso. Il nostro obiettivo è quindi quello di fornire il primo censimento delle stazioni sciistiche abbandonate in Appennino e di confrontarle con quelle attualmente aperte per comprendere le cause che hanno portato al loro abbandono.
Poi esploriamo i fattori alla base del fallimento delle stazioni sciistiche analizzando le relazioni tra variabili climatiche, geomorfologiche ed economiche. Complessivamente, abbiamo trovato 101 stazioni sciistiche sull’Appennino, di cui 28 aperte, 41 chiuse e abbandonate e 32 parzialmente chiuse (cioè chiuse per almeno 7 anni negli ultimi 10 anni). Le località chiuse e parzialmente chiuse rappresentano 358 km di piste da sci (44% del totale disponibile). Il numero di strutture per stazione (impianti di risalita, seggiovie) è maggiore per le stazioni aperte rispetto a quelle parzialmente chiuse e chiuse.
In particolare, l’altitudine massima raggiunta dalle stazioni è maggiore per quelle aperte (1793 m s.l.m.) rispetto a quelle parzialmente chiuse (1687 m s.l.m.) e soprattutto a quelle chiuse (1577 m s.l.m.). Infine, la dimensione media dei resort in termini di lunghezza della pista sciabile è maggiore per i resort aperti (15,7 km) rispetto a quelli parzialmente chiusi (7,1 km) e chiusi (3,2 km). La durata media dell’attività per i resort abbandonati è di 29,5 anni, con un massimo di 56 anni e un minimo di 0 anni per due siti che non sono mai stati aperti dopo la ricostruzione.
L’anno di abbandono è associato positivamente all’altezza massima, alle dimensioni e alla durata del funzionamento. Inoltre, la durata del funzionamento è correlata negativamente con l’anno di costruzione. La nostra analisi multivariata conferma e rafforza l’ipotesi che le cause che portano all’abbandono siano multifattoriali. La maggior parte dei resort chiusi si trova a bassa quota e ha aree sciistiche di dimensioni ridotte, sebbene negli ultimi anni siano stati abbandonati anche alcuni siti ad alta quota. Queste informazioni possono essere utili per gli investitori, i responsabili politici e le parti interessate, che dovrebbero utilizzarle come punto di partenza per la progettazione e la pianificazione di nuovi resort, al fine di evitare futuri fallimenti e perdite di denaro pubblico.
1. Introduzione
A settant’anni dallo sviluppo del turismo alpino, l’industria dello sci genera guadagni annuali per oltre 30 miliardi di euro, sostenendo in modo significativo le economie locali (Steiger et al. 2019). Secondo Yang et al. (2017), la maggior parte delle stazioni sciistiche si trova in Europa, Stati Uniti, Canada e Asia nord-orientale. Tuttavia, nei Paesi altamente sviluppati, il mercato dello sci è stabile e il numero di sciatori si è stabilizzato (ad esempio, negli Stati Uniti, in Canada, in Italia e in Francia) o è lentamente diminuito (ad esempio, in Svizzera e in Giappone). Inoltre, negli ultimi decenni l’industria dello sci ha subito profondi cambiamenti per adattarsi alle nuove richieste del mercato, soprattutto in risposta alle sfide poste dal cambiamento climatico globale (Peeters et al. 2023).
L’idea che il turismo sciistico all’aria aperta possa essere a rischio in un clima in riscaldamento è evidente, dato che la copertura nevosa nella maggior parte delle aree montane sta rapidamente diminuendo a causa del riscaldamento globale. In effetti, l’industria dello sci viene spesso definita “il settore più direttamente e immediatamente colpito” dai cambiamenti climatici (Scott et al. 2012; Gilaberte-Burdalo et al. 2014).
D’altra parte, i costi di investimento delle stazioni sciistiche sono direttamente influenzati dalla disponibilità di neve, in quanto i prezzi dei fattori produttivi sono significativamente più bassi quando le risorse nevose sono più abbondanti, ad esempio con un manto nevoso più profondo e di lunga durata. Purtroppo, la durata del manto nevoso sta rapidamente diminuendo nelle aree ad alta latitudine e ad alta quota, compresi gli Stati Uniti, il Canada e la maggior parte delle catene montuose europee, come le Alpi, i Pirenei, gli Appennini e i Carpazi (Rumpf et al. 2022; Carrer et al. 2023). Ad esempio, nelle Alpi, la durata della copertura nevosa è diminuita del 5,6% ogni decennio negli ultimi 50 anni, con un impatto significativo su un’area in cui l’economia e la cultura si basano fortemente sul turismo invernale (Klein et al. 2016). Nelle Alpi svizzere, Klein et al. (2016) hanno riportato che la stagione della neve nel 2015 è iniziata 12 giorni dopo e si è conclusa 26 giorni prima rispetto al 1970. Nel complesso, la pronunciata diminuzione della durata del manto nevoso, indipendentemente dalla regione e dall’altitudine, richiede sforzi specifici e rapidi da parte dell’industria sciistica per adattarsi alle mutate condizioni climatiche e socio-economiche.
Per garantire la redditività dell’industria sciistica, l’innevamento sistematico può diventare necessario (Steiger et al. 2010), soprattutto all’inizio e alla fine della stagione sciistica (Rixen et al. 2011). Secondo Witmer (1986), una stazione sciistica affidabile ha bisogno di un minimo di 100 giorni a stagione con un manto nevoso superiore a 30 cm in sette inverni su dieci per rimanere economicamente redditizia. In questo contesto, in Austria, più del 50% delle stazioni sciistiche dovrà aumentare l’innevamento dal 100% al 199% in uno scenario di riscaldamento di 2°C, secondo l’analisi di Steiger e Abegg (2017). Più recentemente, François et al. (2023) hanno riportato che in uno scenario di riscaldamento di +2°C e +4°C, circa il 50% e il 98% delle stazioni sciistiche europee saranno gravemente colpite dalla scarsa disponibilità di neve, rispettivamente, e l’innevamento pesante può mitigare solo parzialmente questi rischi. Inoltre, i crescenti costi economici dell’innevamento e la necessità di un approvvigionamento idrico costante limitano il potenziale di questo sistema, mettendo a rischio la sostenibilità economica di questo tipo di turismo. Di conseguenza, il collasso economico e il successivo abbandono delle stazioni sciistiche a causa del calo dell’innevamento sono stati segnalati fin dagli anni ’80 negli Stati Uniti (Burakowski & Magnusson 2012), così come nelle Alpi europee (NeveDiversa 2023). Un esempio notevole è il Viola St Grée nelle Alpi Marittime. Quest’area vasta e multifunzionale, che occupa più di 30 mila metri quadrati a un’altitudine di 1.200 m s.l.m., ha avuto una breve fioritura negli anni Ottanta, ospitando i Campionati mondiali di sci nel 1981. Tuttavia, a causa della mancanza di neve, è stato abbandonato nel 1997 (Ferrari 2023). Negli ultimi decenni sono stati segnalati decine di casi simili di abbandono nelle Alpi e negli Appennini e recentemente sono stati condotti alcuni studi per documentare gli impianti abbandonati (NeveDiversa 2023).
Negli ultimi anni sono proliferati nuovi progetti per la costruzione di ulteriori impianti di risalita su tutto l’Appennino, anche grazie ai potenziali finanziamenti previsti dal Piano Nazionale di Recupero e Resilienza. Ad esempio, nella legge di bilancio 2024, il governo italiano ha stanziato circa 148 milioni di euro per sostenere finanziariamente l’ampliamento, la ristrutturazione e il ripianamento dei deficit di bilancio di diverse località delle Alpi e degli Appennini.
Tuttavia, questi progetti sono caratterizzati da rischi elevati, in quanto spesso non tengono conto dei rapidi cambiamenti climatici in corso e dei fattori ambientali che incidono in modo significativo sulla redditività a lungo termine di questi resort. L’assenza di dati solidi e a lungo termine sulla durata della copertura nevosa negli Appennini (Raparelli et al. 2023) ostacola ulteriormente la nostra capacità di valutare oggettivamente la fattibilità e la sostenibilità ambientale ed economica di questi nuovi resort. Alla luce di queste sfide e della mancanza di dati sulla durata del manto nevoso, è necessario un approccio alternativo per valutare la fattibilità e la sostenibilità a lungo termine dei nuovi investimenti nel settore. Per affrontare questa sfida abbiamo guardato al passato, esaminando sistematicamente la storia degli impianti abbandonati negli ultimi decenni, con la convinzione che ciò possa fornire preziose indicazioni sui fattori ambientali che influenzano maggiormente l’attività delle stazioni sciistiche. In seguito, abbiamo confrontato sistematicamente le stazioni ancora aperte e operative con quelle chiuse e abbandonate. Il nostro obiettivo primario è quindi quello di condurre un censimento completo delle stazioni sciistiche abbandonate nella catena montuosa degli Appennini.
Successivamente, ci proponiamo di esplorare i fattori che contribuiscono all’abbandono di queste stazioni analizzando le relazioni tra diverse variabili selezionate, che rappresentano aspetti climatici, geomorfologici ed economici, quantificati sia per le stazioni sciistiche aperte che per quelle abbandonate. Gli obiettivi specifici di questo lavoro sono i seguenti: fornire il primo censimento completo delle stazioni sciistiche abbandonate in Appennini, identificare le principali differenze tra le stazioni sciistiche aperte e quelle chiuse; testare l’ipotesi che le stazioni sciistiche situate a quote più basse o negli aspetti meridionali più caldi siano più soggette all’abbandono e determinare se le stazioni sciistiche più piccole siano più inclini all’abbandono.
2. Materiali e metodi
2.1 Area di studio
La catena appenninica è lunga circa 1.350 chilometri, si estende dal nord al sud dell’Italia e si estende in latitudine da circa 38°N a 44°N. All’interno della catena appenninica si trovano 261 cime con altitudine superiore a 2.000 m s.l.m. (Fig. 1). Il punto più alto dell’Appennino è il Corno Grande, nel Gran Sasso d’Italia, che si trova a 2.912 m s.l.m.
Dal punto di vista geologico, il substrato roccioso dell’Appennino è composto prevalentemente da calcare, con occasionali presenze di flysch arenaceo-pelitico, in particolare nell’Italia settentrionale e centrale, come nel gruppo dei Monti della Laga. Fagus sylvatica è la specie arborea più diffusa nella fascia montana, che va da circa 800 a 1.000 m s.l.m., fino al limite del bosco (Bonanomi et al. 2018). Al limite degli alberi si trovano popolamenti quasi monospecifici di F. Sylvatica, che coesistono con specie di conifere relitte solo in poche località. Piccoli popolamenti forestali di Abies alba sono segnalati nell’Appennino settentrionale, mentre Pinus heldreichii subsp. leucodermis è presente al limite degli alberi nell’Appennino meridionale, in particolare nel gruppo del Pollino.
Il clima dell’Appennino è fortemente influenzato dalla sua vicinanza al mare. Nelle zone più alte si verificano condizioni climatiche di tipo montano, caratterizzate da inverni freddi e nevosi ed estati fresche. Spostandosi verso i versanti più bassi, il clima diventa più mediterraneo, con estati calde e secche e inverni miti. Solo i bacini intermontani, meno esposti all’influenza marina, presentano un clima con caratteristiche più continentali, come si osserva nel gruppo montuoso del Velino-Sirente (Bonanomi et al. 2020). Le precipitazioni sono abbondanti nelle zone più alte, spesso superano i 1.500 millimetri all’anno, e diminuiscono man mano che si scende di quota. Le maggiori precipitazioni si registrano tipicamente sul versante tirrenico occidentale dell’Appennino, dove i venti marini carichi di umidità soffiano in direzione sud-ovest e talvolta di maestrale. Al contrario, i bacini e il versante adriatico registrano precipitazioni molto più scarse. Le nevicate sono frequenti durante l’inverno, ma una copertura nevosa persistente si trova tipicamente solo a quote superiori ai 1.500 m s.l.m. (Raparelli et al. 2023; NeveDiversa 2023).
Dal punto di vista del turismo legato agli sport invernali, gli Appennini ospitano attualmente 101 stazioni che offrono complessivamente 799 km di piste da sci (fonte: https://www.skiresort.it/). La maggior parte di queste stazioni operative si trova nell’Italia settentrionale, in particolare nell’Appennino tosco-emiliano. Tra le più importanti vi sono il Monte Cimone (che offre 50,0 km di piste), l’Abetone (con 44,1 km di piste) e le Cornoalle Scale (che offrono 14,0 km di piste). Nell’Italia centrale si trovano stazioni di notevole importanza socio-economica, come l’Alto Sangro – Roccaraso/Rivisondoli, che è la più grande dell’Appennino e la quarta in Italia, con 90,5 km di piste, seguita da Campo Felice (che offre 30,9 km di piste) e Ovindoli (con 20 km di piste).
2.2 Censimento e raccolta metadati delle stazioni sciistiche abbandonate
Il primo obiettivo del lavoro è quello di fornire un censimento completo delle stazioni sciistiche chiuse e abbandonate da confrontare con quelle ancora aperte in Appennino. Questo obiettivo è stato raggiunto con successo raccogliendo informazioni da diverse fonti, tra cui le precedenti indagini condotte dall’associazione ambientalista Legambiente e pubblicate nel
rapporto NeveDiversa 2023 (https://www.legambiente.it/comunicati- stampa/nevediversa-2023-i-dati-del-nuovo-report/). I dati di Legambiente sono stati poi integrati con informazioni reperite nella letteratura grigia, come articoli pubblicati su quotidiani nazionali e locali. Inoltre, i dettagli relativi ad alcuni resort abbandonati sono stati ricavati da siti web creati da privati (https://lost-lift.weebly.com, https://lo-sci- che-fu.jimdosite.com). L’analisi ha evidenziato l’esistenza di due categorie, i resort definitivamente chiusi e abbandonati (di seguito indicati come chiusi) e altri che invece modificheranno i periodi di chiusura e apertura. Nella nostra analisi queste ultime sono state classificate come “parzialmente chiuse” quando sono considerate tali per almeno sette degli ultimi dieci anni.
Una volta completato il censimento delle stazioni sciistiche abbandonate, la seconda fase è stata dedicata alla raccolta di metadati con l’obiettivo di comprendere i fattori che hanno contribuito o causato il fallimento economico e la successiva chiusura di queste operazioni. In particolare, abbiamo esaminato la capacità esplicativa di 11 variabili geografiche e socio-economiche in relazione alla presenza di stazioni sciistiche abbandonate. In particolare, per quanto riguarda le variabili geografiche, abbiamo raccolto dati per tutte le stazioni sciistiche (aperte, parzialmente chiuse e chiuse), tra cui la latitudine e la longitudine, la distanza dal mare, l’aspetto, l’altitudine minima e massima, nonché l’estensione dell’area sciabile. Tutti i dati geografici sono stati ricavati da Google Earth Pro. Per quanto riguarda le variabili socio-economiche, abbiamo considerato l’anno di costruzione e l’anno di abbandono della struttura, la durata in anni di attività e le dimensioni del resort, espresse in termini di chilometri di piste utilizzabili. Queste informazioni sono state ottenute direttamente dai siti web dei resort o, se tali dati non erano disponibili, dal sito web di Skiresort (https://www.skiresort.it/).
Sono state condotte analisi di correlazione per valutare le relazioni tra queste variabili geografiche ed economiche. Infine, per fornire un confronto più ampio tra le località aperte, parzialmente chiuse e chiuse, abbiamo condotto un’analisi multivariata. In particolare, è stata condotta un’analisi delle componenti principali (PCA) per individuare i modelli tra le località aperte, parzialmente chiuse e chiuse in base alle loro caratteristiche ambientali. La latitudine, la longitudine, la distanza dal mare, la lunghezza della pista, la distanza sciabile, l’altitudine massima e minima erano le variabili incluse nella PCA (software STATISTICA 13).
3. Risultati
3.1 Censimento delle stazioni sciistiche appenniniche
In totale sono state individuate 41 stazioni sciistiche abbandonate nell’Appennino, mentre altre 32 sono parzialmente chiuse e solo 28 sono aperte in modo continuativo (Fig. 1, Tabella 1). La maggior parte delle stazioni sciistiche abbandonate si trova nell’Appennino settentrionale (N=20), seguito dall’Appennino centrale (N=12), con un minor numero di casi nell’Appennino meridionale (N=9). Ai nostri fini, anche le isole di Sardegna e Sicilia sono incluse nell’Appennino meridionale. Per quanto riguarda l’aspetto, la maggior parte delle stazioni sciistiche è costruita su pendii montuosi con esposizione settentrionale, mentre sono pochi i casi con esposizione occidentale e meridionale (Fig. 2). Tuttavia, il 96,4% delle stazioni aperte si trova su esposizioni fredde (nord ed est) e solo una stazione (equivalente al 3,6%) si trova su pendii caldi (ovest – Monte Terminillo). Sebbene la maggior parte dei comprensori chiusi si trovi anch’essa su esposizioni fredde (73,2%), una quota considerevole di questi era situata su esposizioni calde (sud e ovest) (26,8%)
Il numero di strutture per comprensorio (cioè impianti di risalita,
seggiovie) è maggiore per gli impianti aperti rispetto a quelli parzialmente chiusi e chiusi. Da notare che solo quattro stazioni attualmente aperte hanno più di quindici strutture operative.
La quota minima di nessuna località, in termini di lunghezza delle piste sciabili, è stata molto maggiore per le località aperte (15,7 km) rispetto a quelle parzialmente chiuse (7,1 km) e chiuse (3,2 km). In termini di area sciabile, solo tre località hanno più di 40 km di piste, con l’Alto Sangro-Roccaraso/Rivisondoli che fa eccezione con 90,5 km di piste, considerata la quarta località più grande d’Italia. Per quanto riguarda le località chiuse, la lunghezza delle piste sciabili varia da 0,5 km a 15 km per la località di Prato Selva (Fig. 3). Infine, la distanza dal mare delle località è leggermente maggiore per quelle aperte (50 km) rispetto a quelle parzialmente chiuse (47 km) e a quelle chiuse (44 km).
Per quanto riguarda la storia dei resort abbandonati, il primo resort attualmente abbandonato è stato costruito nel 1960, mentre quello di più recente costruzione risale al 2015 (Fig. 4). I primi casi di abbandono possono essere fatti risalire ai primi anni ’80, mentre il caso più recente risale al 2022. In media, la durata del funzionamento dei resort è risultata essere di 29,5 anni, con variazioni che vanno da un massimo di 56 anni a un minimo di 0 anni per due resort completati ma mai aperti al pubblico.
3.2 Analisi delle variabili geografiche e socio-economiche alla base dell’abbandono delle stazioni sciistiche
L’analisi di correlazione ha rivelato che l’anno di abbandono della stazione è positivamente associato all’altitudine massima della stazione, alle sue dimensioni e alla durata della sua attività. QUI per approfondire con tabelle, figure e variabili.
4. Discussione
Il nostro studio ha individuato 101 stazioni sciistiche in Appennino, di cui 28 aperte, 41 chiuse e abbandonate e 32 parzialmente chiuse (cioè, chiuse in più di almeno 7 negli ultimi 10 anni). In totale, le stazioni abbandonate e parzialmente chiuse coprono 358 km di piste, mentre quelle operative coprono 440 km di piste, rappresentando il 44% dell’area sciabile dell’Appennino. Questi dati sottolineano come una parte significativa delle strutture costruite negli ultimi 70 anni giaccia oggi abbandonata o inattiva, contribuendo al degrado paesaggistico e ambientale (Fig. 1). Un’analisi approfondita delle cause ufficiali, riportate principalmente da fonti come i giornali, rivela un’ampia gamma di motivi per queste chiusure. Ad esempio, il resort di Forche Canapine, nel gruppo dei Sibillini, è stato chiuso a causa dei danni provocati dal terremoto del 2016. La parte superiore dell’area di Monte Papa-Sirino è stata chiusa a seguito di una valanga nell’inverno del 2015. In diversi casi vengono citati danni dovuti ad atti vandalici (ad esempio, Monte Volturino), ma le ragioni più comuni sono senza dubbio le controversie legali tra il proprietario delle strutture, in molti casi enti pubblici come i comuni, e i gestori, spesso privati (es. Valle del Sole, Monte Mufara, Prati di Mezzo). Solo in alcuni casi la mancanza di neve viene ufficialmente riportata dai giornali come motivo principale della chiusura degli impianti, spesso negando o ignorando l’evidenza che la mancanza di neve è il problema principale (NeveDiversa 2023). In realtà, la maggior parte delle località appenniniche ha la possibilità di produrre neve artificiale. Nonostante ciò, nell’inverno del 2023, la maggior parte degli impianti è rimasta chiusa perché le temperature, anche a gennaio e febbraio, erano troppo alte per consentire la produzione di neve artificiale. Il nostro censimento completo dei resort abbandonati e di quelli aperti, insieme alla raccolta dei dati geografici e strutturali ad essi associati, svela una verità più ampia, permettendoci di individuare i fattori che contribuiscono al fallimento di tali attività economiche.
In primo luogo, la nostra analisi sottolinea l’importanza dell’altitudine e delle dimensioni dei resort. Negli anni ’80 e ’90, i resort situati ad altitudini relativamente basse (con un’altitudine massima inferiore a 1.500 m s.l.m.) e di piccole dimensioni, tipicamente con meno di 5 km di piste, erano più inclini all’abbandono.
Questi due fattori indicano che le strutture situate a quote più basse sono naturalmente più soggette alla mancanza di neve. Inoltre, le stazioni più piccole faticano a far fronte a problemi ricorrenti, siano essi dovuti a cause naturali o ad attività umane, come la necessità di investimenti sostanziali in sistemi di innevamento artificiale. Per fare un esempio, all’inizio degli anni ’80 i primi resort ad essere abbandonati sono stati quelli di proporzioni ridotte (meno di 2 km di piste) e posizionati a quote molto basse, talvolta anche al di sotto dei 1.000 m s.l.m. Zocca (con un’altitudine massima di 836 m s.l.m.) e Monte Faito (con un’altitudine massima di 1.150 m s.l.m.) sono un esempio di queste situazioni. Tuttavia, i nostri dati rivelano che negli ultimi decenni queste sfide hanno interessato anche località di medie dimensioni situate a quote più elevate. Ad esempio, nel 2019 è stata abbandonata la stazione di Prato Selva, che comprende 15 km di piste e si trova ad altitudini relativamente elevate (con un’altitudine minima di 1.373 m s.l.m. e un’altitudine massima di 1.775 m s.l.m.).
Di particolare importanza è l’assenza di nevicate durante le festività di Natale e Capodanno in Appennino negli ultimi 10 anni (Raparelli et al. 2023). In molte località, questo periodo di circa due settimane genera circa il 50% delle entrate economiche (NeveDiversa 2023), e l’assenza di neve in questo breve periodo determina una riduzione del fatturato economico così significativa da causare la chiusura delle strutture.
Da questo punto di vista, l’inverno 2024 in Appennino si è svolto in modo drammatico, caratterizzato da scarse precipitazioni nevose e da prolungati periodi eccezionalmente caldi anche in alta quota, che hanno reso inefficaci i tentativi di produrre neve artificiale. Di conseguenza, per una parte significativa della stagione invernale, solo due grandi aree sciistiche sono state parzialmente operative, mentre altre sono rimaste chiuse per tutto il periodo.
Il nostro studio ha anche sottolineato l’importanza dell’interazione tra l’altitudine e l’orientamento delle piste da sci. Coerentemente con le aspettative per l’emisfero settentrionale, dove la radiazione solare è più bassa e la copertura nevosa persiste più a lungo sui pendii orientati a nord (Körner 2012), oltre il 70% delle stazioni del nostro studio erano posizionate con un’esposizione a nord.
È importante notare, tuttavia, che una piccola parte dei comprensori è situata su versanti esposti a sud, caratterizzati da un prolungato irraggiamento solare anche nei mesi invernali. Nonostante queste strutture esposte a sud siano situate ad alta quota, tra cui l’impianto di risalita di Campo di Giove, che raggiunge il punto più alto dell’Appennino continentale a 2.324 m s.l.m., sono rimaste abbandonate per oltre un decennio. Ciò è dovuto al fatto che, nonostante l’alta quota e le abbondanti nevicate, l’esposizione a sud riduce significativamente la durata della copertura nevosa, rendendo tali strutture economicamente non redditizie (Witmer 1986). La nostra analisi rafforza questo concetto, riportando che il 96,4% dei resort aperti sono situati in esposizioni fredde (nord ed est), con un solo resort (Monte Terminillo) esposto a ovest. Questa stazione (Monte Terminillo) ha avuto enormi difficoltà negli ultimi anni a causa del rapido scioglimento della neve, nonostante la notevole altezza delle piste da sci (fino a 1868 m sul livello del mare). Alla luce di questi risultati, l’idea di rilanciare e ampliare la stazione di Monte Cristo, che si trova a un’altitudine massima di 1.900 m s.l.m. ma su versanti meridionali e soleggiati, potrebbe essere fortemente sconsigliata.
Infine, l’analisi della correlazione tra l’anno di costruzione e la durata operativa delle stazioni sciistiche ha rivelato che le strutture costruite o ristrutturate dopo il 2000 hanno una durata operativa notevolmente più breve rispetto a quelle costruite negli anni ’60 e ’70. Ci sono due casi estremi, in cui le stazioni ristrutturate negli ultimi quindici anni non hanno mai aperto al pubblico. Al contrario, le strutture costruite tra i 50 e i 60 anni fa sono rimaste operative per periodi che vanno dai 12 ai 56 anni. Questa analisi dimostra inequivocabilmente che le strutture di recente costruzione hanno una vita operativa significativamente più breve, il che a sua volta rende gli investimenti economici in queste imprese altamente rischiosi, soprattutto se si trovano ad alta quota e sono di piccole dimensioni. La nostra analisi multivariata conferma e rafforza l’ipotesi che le cause che portano all’abbandono siano multifattoriali, con nessuna delle singole variabili esaminate in grado di spiegare da sola la propensione al fallimento.
La PCA ha mostrato un modello progressivo in cui si distribuiscono le località abbandonate, quelle parzialmente chiuse e quelle aperte. Infatti, le località chiuse condividono le caratteristiche di essere posizionate a bassa quota, soprattutto per quanto riguarda il punto di arrivo degli impianti di risalita, e di essere di piccole dimensioni con una lunghezza limitata di chilometri di pista. Questo risultato ha importanti implicazioni, indicando che solo le località situate alle quote più alte e con grandi dimensioni in termini di numero di impianti di risalita e km di piste saranno in grado di affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico.
5. Conclusioni
Il presente studio fornisce una serie completa di dati sulle stazioni sciistiche abbandonate e ancora aperte negli Appennini negli ultimi 70 anni. Questi dati costituiscono una preziosa lezione per gli investitori, i politici e l’intero settore del turismo invernale. Incoraggiano le parti interessate a valutare o addirittura a riconsiderare la saggezza di mantenere una forte dipendenza dal turismo invernale in aree caratterizzate da bassa quota (sotto i 1.500 m s.l.m.) o da pendii situati in esposizioni meridionali. È importante notare che un’ampia dipendenza dall’innevamento artificiale per la sostenibilità dell’industria del turismo invernale richiede un significativo apporto di energia e acqua, causando potenzialmente scarsità per altri settori concorrenti (Peeters et al. 2023). Recenti studi su larga scala condotti nelle Alpi (François et al. 2023) e in Cina (Xu et al. 2023) hanno messo in guardia dalla costruzione di nuovi resort senza prendere in seria considerazione i potenziali impatti ecologici e il rischio associato ai cambiamenti climatici. Nel contesto degli Appennini, il nostro studio, che ha messo a confronto le caratteristiche dei resort abbandonati con quelli ancora operativi, chiarisce le caratteristiche che favoriscono il fallimento, ossia i resort situati a bassa quota, su pendii caldi e di dimensioni ridotte in termini di impianti di risalita e piste sciabili. Il nostro studio aiuterà le parti interessate e i responsabili politici a identificare meglio i fattori geografici e socio-economici che dovrebbero guidare gli investimenti futuri e prevenire ulteriori fallimenti e perdite di denaro pubblico.
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