Il sogno proibito di due popoli «dal fiume al mare»

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La lettura del sionismo come impasto di colonialismo e nazionalismo è sempre più diffusa. E le ragioni di questa analisi, fortunatamente, iniziano a venir comprese da sempre più persone.

Tuttavia quello che parallelamente inizia a declinare è la comprensione dell’altro aspetto dell’insediamento degli ebrei in Palestina. Se molti ebrei non fossero fuggiti dall’Europa sarebbero morti ammazzati assieme agli altri sei milioni. I due lati della nascita di Israele servono a provare a pensare oltre le macerie di Gaza. Ricordare questo aspetto in questo momento può suscitare antipatia e accuse di solidarietà con gli argomenti per il genocidio dei palestinesi. Potrebbe essere altrimenti. Rompere i blocchi serve infatti a far deporre le armi. Non le armi della giusta lotta contro l’oppressione, della resistenza contro il tentativo di annientamento da parte di Israele. Piuttosto le armi che i soggetti in campo continueranno a imbracciare anche quando e se la guerra terminerà, dopo la fragilissima tregua. Anche dopo un processo di riconciliazione e giustizia, nel riconoscimento dei torti profondi inflitti ai palestinesi, uno spazio per le ragioni degli ebrei israeliani andrà trovato. Isaac Deutscher, intervistato dalla New Left Review nel 1967, usava l’immagine dell’uomo in fuga da un palazzo in fiamme che piomba su un passante incolpevole. Più utile è però vedere nei nazionalismi e nelle pulizie etniche il comune contesto da cui Nabka e Shoah emergono. Queste tragedie potrebbero così cessare di esser viste come proprie di due popoli avversari e permettere, invece di riconoscersi in esperienze diverse e che pur tuttavia condividono alcuni aspetti.

Lo stato binazionale è lontano dall’orizzonte – varie generazioni, a esser ottimisti -, così come una confederazione di due stati o il vecchio miraggio delle due sovranità distinte. La solidarietà israelo-palestinese viene strutturalmente attaccata – da ultimo nell’Educational Bookshop a Gerusalemme, a Massafer Yatta tutti i giorni. Prevale la logica del nemico. Ma dal minuscolo interstizio in cui si raccolgono queste iniziative di cooperazione forse, prima o poi, potrà sorgere un più solido fronte di solidarietà israelo-palestinese. Solidarietà ostacolata anche dai discorsi di alcuni ebrei “progressisti” che parlano dei palestinesi come di una minaccia demografica. I due stati, in quest’ottica, servono perché la maggioranza possa rimanere ebraica. Questo è il punto di vista biopolitico e razzista, ad esempio, di Yair Golan, leader del centro-sinistra israeliano.

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Dal fiume al mare rimane un’espressione bandita come genocidaria in Germania e guardata con sospetto da molti ebrei, anche non nazionalisti. Eppure questa potrebbe essere la realizzazione del sogno di alcuni sionisti come Martin Buber e Judah Magnes e, da ultimo, dell’ex sionista Tony Judt. Così come di altrettanti palestinesi come Edward Said e Moustafa Barghouti con la loro

Iniziativa Nazionale Palestinese – l’eguaglianza piena tra ebrei e palestinesi nella stessa terra. Questo sogno ha requisiti estremamente ambiziosi, come la fine di occupazione e apartheid. E la devastazione di Gaza e il fascismo del governo israeliano (oltre alla presidenza Trump) si impongono come ostacoli insormontabili. Chiedere a chi ha perso parenti e cari per mano del nemico di convivervi ha dell’assurdo. Ma nessuno se ne andrà da lì. E quindi con questo assurdo bisogna convivere.

I due stati, al contrario, la soluzione standard della diplomazia internazionale, oramai sono una litania priva di significato. Un’invocazione tanto rituale quanto irrealizzabile. Lo stato unico è sempre stato rappresentato come utopistico e suicida. Il realismo impone di non chiedere a ebrei israeliani e palestinesi di amarsi e vivere insieme. Ma di separarsi e non uccidersi. Tuttavia, la separazione non prelude alla pace a causa della pretesa di entrambi i popoli di volere tutto il territorio. Il che comporterebbe conflitti perenni sui confini e discriminazioni permanenti verso le minoranze della popolazione avversaria, con i calcoli biopolitici che ne conseguono.

Buber, Magnes e Judt vedevano nello stato nazione una soluzione anacronistica al problema dell’antisemitismo. Said e Barghouti vedevano nella separazione una proposta insufficiente per la libertà palestinese. Tutti e sei si sono scontrati con l’accusa di desiderare l’irrealizzabile. Sono stati richiamati alla disciplina della veglia contro le fantasie dei sogni. Ma dove si è manifestata l’immane violenza di uno stato nazione che si pensa – e agisce – come libero dai vincoli del diritto internazionale, forse proprio lì si vede la sua inappropriatezza. Se le distopie trumpiane della deportazione di massa sono il proseguimento della pulizia etnica, a questa vanno contrapposte radicali visioni alternative – che non emergeranno dal vertice organizzato dalla Lega Araba, né da retrotopie nativiste incentrate sulla precedenza territoriale. Dove più è forte la dimensione sanguinaria dell’identità, tanto più bisogna provare a rompere il legame tra maggioranza etnica e sovranità statale.



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