Riflessioni sul centro storico di Viterbo

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di Francesco Mattioli*

VITERBO – Fa piacere sapere che il Comune di Viterbo, con il sostegno dell’Università Sapienza di Roma, sta pensando a un vero Piano di Recupero del centro storico. Ma qualcosa va precisato a riguardo.

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Il centro storico, come entità urbana unitaria, non esiste; o meglio non esiste più. Come minimo, ci sono tre diverse identità del centro storico: quella di pregio, meta di continue frotte di turisti, che vive una sua propria vita culturale, sociale ed economica; quella potenzialmente di pregio, che però va valorizzata; e una estesa mediocrità urbana, anonima e decadente, spesso marginale e abbandonata.

Questo vale non solo per Viterbo, ma per  qualunque altro centro, grande o piccolo che sia, in Italia e non solo. Perché questo accade? Per la stessa ragione per cui oggi ci spostiamo in auto invece che in carrozza a cavalli, leggiamo le notizie su un tablet invece che ascoltando le notizie da un banditore, che viviamo in un’abitazione smart invece che in un antro illuminato dalle candele, che acquistiamo beni online invece che recarci con la sporta di vimini al mercato delle verdure in piazza.

Può darsi che qualche nostalgico provi rimpianto per il tempo che fu (magari se rimpiange gli agi esclusivi di una piccola élite di privilegiati) ma novantanove consumatori su cento non tornerebbero indietro o bluffano se dicono che cinquant’anni fa si viveva meglio, “a misura d’uomo”. E in ogni caso, la città oggi ha assunto significati diversi e poco si può fare per invertire la rotta di una realtà urbana nata e cresciuta quando era necessario proteggersi entro le mura civiche, spostarsi a piedi o a trazione animale, avere abitazioni difendibili, accontentarsi di consumare i beni delle campagne circostanti e vivere una quotidianità sostanzialmente lontana dal mondo oltre l’orizzonte.

Dunque, i centri storici sono sorpassati e tenerli in vita è pressoché impossibile, a meno che non si riesca a immetterli nel circuito sociale, economico e consumistico di oggi. Quelle parti che mantengono o acquistano valore nella logica della fruizione consumistica odierna e soprattutto in quella turistica – oggi aspetto fondamentale di un crescente tempo libero qualitativamente valorizzato – vanno quindi trattate come disneyland, perché è nella logica di Disneyland (accessibilità, accoglienza, spettacolarità) che il prodotto turistico si vende e produce interesse e ricchezza.

So che parlare di Disneyland fa rabbrividire i puristi dell’urbanistica e del turismo culturale, ma sarà opportuno che scendano dall’empireo dove sognano e guardino ai fatti del XXI secolo. Disneyland è finta, certo, e un centro storico non lo è; ma non è neppure vero, perché quello vero non c’è più, neppure quello che ospitava lo struscio domenicale fino a venti (o trenta?) anni fa.

Riprendiamo le tre qualità della logica Disneyland, senza demonizzarne recondite  connotazioni. Iniziamo dall’accessibilità. Cioè parcheggi, a dismisura, serviti, protetti, meglio ancora se coperti e a buon mercato. Nessuno pensi minimamente di tornare al traffico cittadino: non è solo questione di inquinamento, perché magari domani si girerà solo in elettrico; è questione di spazio, di sicurezza e di libertà di movimento del pedone.

L’accoglienza. Significa punteggiare il centro storico di hotel, B&B, ristoranti, trattorie, caffè, bar, servizi pubblici, spazi commerciali innovativi, e soprattutto di garantire controlli, igiene e sicurezza h24. E valorizzarlo anche esteticamente (senza fili, filacci, crepe, scrostature e raffazzonamenti, e con molti ornamenti, specie floreali).

Terzo punto: spettacolarità. Il centro storico deve essere “attraente” a trecentosessanta gradi, cioè deve avere non solo bellezze architettoniche, paesaggistiche e artistiche rispettate, ma offrire punti commerciali attrezzati e di qualità, informazioni capillari, eventi ricorrenti se non continui, servizi ad personam, compresi quei cinema, quei teatri, quei locali, quei negozi che possono essere frequentati non solo dai turisti ma anche dai residenti.

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Insomma, in un certo senso i centri storici, almeno quelle parti che architettonicamente e urbanisticamente lo meritano o lo consentono, devono essere come i migliori centri commerciali, dove arrivi, parcheggi e comodamente raggiungi gli spazi dedicati a questa o a quella attività, in condizioni di igiene, di sorveglianza e di sicurezza estremamente elevati, per di più in un contesto ambientale particolarmente suggestivo e pittoresco. Qualcuno obietterà: ma un centro storico è più ampio e complicato di un centro commerciale. Non ha visto certi centri commerciali…; e comunque non tutto il centro storico va organizzato come un centro commerciale, ovviamente.

C’è un altro punto critico, infatti. La residenzialità. Oggi un’abitazione moderna ha finestre ampie, locali luminosi, sistemi di riscaldamento e di arieggiamento aggiornati, risparmiosi, scale comode, garage e spazi di parcheggio sotto casa: pregi che una abitazione di solo cento anni fa (per non parlare di una medievale) non aveva e talvolta non era necessario avere. In tal caso, l’unica possibilità è quella di sfruttare i grandi edifici gentilizi a fini alberghieri o culturali, e soprattutto creare spazi abitativi a termine o supplementari, a costi calmierati, utilizzabili in varie forme, residenziali o semi commerciali (artigianali, professionali, ecc).

La parte più mediocre del centro storico andrebbe destinata prevalentemente ad attività di immagazzinaggio e di servizio, con forme di accessibilità strettamente regolate. E attenzione: soprattutto, occorre evitare la creazione di sacche di residenzialità povera o marginale,
perché in tal caso si generano ghetti, eticamente intollerabili ma anche socialmente pericolosi. Questo è un altro dei punti fondamentali per una rivitalizzazione del centro storico; ma lo è anche per una vera battaglia di civiltà. Nessun “recinto” va tollerato.

Tutto ciò esige investimenti di grandi dimensioni, ai quali non può essere estraneo l’apporto, quindi l’investimento, di privati, che ovviamente non agiscono solo per la gloria e per un posto in paradiso. Dunque, ricapitolando: parcheggi sotterranei, scale mobili per l’accesso, navette, coperture e protezioni mobili contro le intemperie lungo le vie di maggior frequentazione pedonale (Corso Italia e Via Roma, retrattili o removibili per il Trasporto della Macchina di S.Rosa), squadre di controllo e di pulizia in continua attività, programmazione degli eventi, coordinamento tra gli esercenti, promozione turistica sistematica, maturazione di una mentalità di accoglienza ma anche di rispetto verso la città, informatizzazione spinta, riutilizzo mirato dei grandi contenitori, ecc.

Qualche esempio? Parking multipiano sotto via Marconi (giustamente non al Sacrario, che è tutto riporto) con scala mobile di accesso a via della Sapienza o a piazza Verdi; navette circolari continue dai parcheggi di prossimità, in specie per i residenti; agevolazioni fiscali per gli operatori; riuso dell’ex Ospedale e dell’ex Banca d’Italia come sedi culturali, ma anche di grandi hotel-spa; capacità di creare “narrazioni” turistico-culturali (anche via social) in grado di attrarre turismo internazionale (Siena non subisce la concorrenza di Firenze grazie ad una corsa di cavalli in tondo; Viterbo non deve temere la concorrenza di Roma, grazie a S. Rosa e all’eccezionale hinterland della Tuscia); sorveglianza diurna, non sono ammissibili né sporcaccioni né attaccabrighe. E poi, nella progettazione e nella gestione, più professionalità e meno dilettantismo di buona volontà, meno saccenteria e meno litigiosità provinciale, e maggiore disponibilità verso un vero professionismo, lasciando da parte ciarlatani ed esibizionisti da talkshow.

Qualcuno obietterà ancora: così il centro storico viene snaturato e stravolto. Costui non si è accorto che il mondo è cambiato e ha altre priorità, e rischia di dimostrarsi un passatista senza speranza e con molta ignoranza. Non abbiamo bisogno di nostalgici che rimpiangono i bei tempi andati, ma non sanno muovere un dito per salvare il moribondo o pensano di curarlo con la solita aspirina; abbiamo bisogno di medici competenti e di cure da cavallo.

Sogni, piuttosto che mete? Non proprio. Altrove è stato fatto, o si sta facendo: basta documentarsi, girare il mondo intorno a noi, senza neppure allontanarsi troppo. Segno che tanto sogni non sono… e poi, non è forse il sogno che ha spinto l’Umanità a crescere e a gettarsi fuori della confort zone di una povera caverna?

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*già Professore ordinario di Sociologia alla Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione nell’Università Sapienza di Roma, ha insegnato anche Sociologia urbana nella Facoltà di Architettura Quaroni dello stesso Ateneo.



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