Forse non tutti sanno che in Italia esiste una disposizione costituzionale, l’art. 46, in materia di collaborazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Un’analoga previsione non si rinviene, verrebbe da dire paradossalmente, nella Grundgesetz della Germania, ove invece il celebre modello della Mitbestimmung si è sviluppato sin dal Secondo Dopoguerra. Ben più note sono le previsioni della nostra Carta sul diritto di sciopero (articolo 40) e sulla libertà di organizzazione sindacale (art. 39) e ciò non è un caso, visto che «la via italiana alla partecipazione dei lavoratori» si è tradizionalmente fondata sul binomio contrattazione collettiva – sciopero (cosiddetta partecipazione conflittuale).
È pur vero che, sotto la spinta europea, a cavallo del millennio si è assistito alla promozione di diverse forme di coinvolgimento dei lavoratori alla gestione delle imprese. Il riferimento, senza volersi oltremodo dilungare, è al recepimento delle direttive sui comitati aziendali europei, di informazione consultazione dei lavoratori in generale e di coinvolgimento dei lavoratori nella cosiddetta «società europea»; va comunque tenuto presente come il legislatore italiano abbia optato, nel dare attuazione ai dettami europei, a favore di un ampio rinvio alla contrattazione collettiva, mostrando quindi di volersi ancora una volta affidare al canale sindacale.
Le virtù del contratto collettivo
D’altro canto, le più articolate esperienze italiane di partecipazione dei lavoratori (dal celebre «Protocollo Iri» sino al più recente «Caso Luxottica») hanno avuto nel contratto collettivo la propria fonte, traendo la propria linfa da un clima aziendale particolarmente propizio per una proficua collaborazione. Eppure qualcosa si sta muovendo da ultimo anche a livello di settore, tanto è vero che nel documento congiunto Cgil-Cisl-Uil del 14 gennaio 2016 la partecipazione viene addirittura inserita tra i pilastri delle relazioni industriali.
Ancora, il contratto collettivo dei metalmeccanici, che da sempre rappresenta il polso del sistema delle relazioni industriali, ha assegnato, in occasione dell’ultimo rinnovo, un ruolo maggiore alla partecipazione, per quanto pure sempre declinata in una versione «debole» (quale diritto all’informazione e consultazione) e non forte (nel senso del potere di veto o del diritto di co-determinazione «alla tedesca»).
Al contempo va considerato che, nell’ambito di alcune note vertenze, le previsioni menzionate sono state invocate non al fine di rivendicare un maggiore coinvolgimento nel processo decisionale, bensì in funzione di grimaldello per paralizzare (temporaneamente) i processi di riorganizzazione e così avviare una – legittima, ma giocoforza conflittuale – negoziazione sulle conseguenze di tali scelte sulla forza lavoro.
A scompigliare ulteriormente le carte potrebbe essere oggi il legislatore, che pare orientato a operare un intervento nella materia in esame, già in passato lumeggiato dalla Riforma Fornero (legge 92/2012), la cui delega alla promozione, attraverso un apposito decreto legislativo, di un ampio e variegato ventaglio di soluzioni partecipative era tuttavia infruttuosamente scaduta.
Evitando di indugiare sui dettagli che sono oggetto della corrente discussione parlamentare, basti ricordare che il recente ddl, nato da un’iniziativa della Cisl, muove nel senso di incentivare una partecipazione, non solo finanziaria dei lavoratori, ma anche e soprattutto gestionale dei lavoratori attraverso la regia della contrattazione collettiva, cui spetterebbe il compito di definire sedi, tempi, modalità e contenuti della consultazione dei rappresentanti della forza lavoro.
Preso atto che, in linea con la tradizione italiana, si continuerà a passare dal contratto collettivo (nazionale, in prima battuta), la questione, di natura politica ben più che tecnico/giuridica, è se la partecipazione debba, o anche solo possa, essere imposta alle imprese, o se, come pare da ultimo stia emergendo dal dibattuto parlamentare, essa debba ancora dipendere da una libera opzione degli attori economici, magari agevolata in altro modo dal legislatore.
In realtà la sfida della partecipazione è sostanzialmente culturale e sulla sua sorte è destinato a incidere pure il progresso tecnologico: i nuovi strumenti come l’AI, infatti, per condurre verso l’agognato incremento della produttività del lavoro (piuttosto che verso la sua sostituzione) richiedono l’adozione, in chiave abilitante, di scelte altrettanto innovative sul piano organizzativo. Tra queste rientrerebbe proprio la partecipazione, dalla quale potrebbero trarre vantaggio tanto le imprese quanto i lavoratori. (riproduzione riservata)
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