Germania al voto, l’Europa trema: è il primo test della seconda era Trump

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Si scrive Germania, si legge Europa. Il voto tedesco è il primo test della seconda era Trump, l’occasione che consentirà di verificare la reazione del più forte, più popolato e in più crisi d’identità fra i Paesi del Vecchio Continente, alle dirompenti politiche del neo presidente americano. Sarà una risposta d’orgoglio in difesa dei valori su cui si è costruita l’Ue nella pace postbellica o uno stimolo a prenderne le distanze in nome del nuovo e sfavillante ordine mondiale che il magnate newyorkese promette per chi lo ama e lo segue?

E sino a che punto l’elettorato deciderà di affidarsi all’ultradestra euroscettica e xenofoba perché teme il futuro e perché lo ha detto su X il nababbo con la motosega in mano? Il risultato, in realtà, è in buona misura scontato, ma non le sue conseguenze sui Paesi del patto a dodici stelle, quasi tutti in bilico fra un passato stanco e un futuro incerto. Su cosa succederà davvero da lunedì 24 febbraio a Roma come Bruxelles, dunque a Kiev e a Gaza, anche alla luce della complessità dei criteri che sovrintendono la consultazione, si accettano più facilmente scommesse che previsioni.

Cosa dicono i sondaggi

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I sondaggi della Repubblica federale – mai troppo affidabili, a dir la verità – assicurano che a vincere saranno i cristiano democratici Cdu/Csu guidati da Friedrich Merz, l’avvocato renano che tutti vedono salire al cancellierato con circa il 30 per cento dei consensi.

Dopo qualche flirt sfortunato, l’aspirante premier ha messo in chiaro di non aver intenzione di scendere a patti con i duri e non necessariamente puri di Alternative für Deutschland, il partito dell’ultradestra che piace a Elon Musk e si fa bandiera della deportazione degli stranieri e dell’uscita dall’euro.

Il suo problema è che AfD, alleato europeo della Lega, ha saputo intercettare i mal di pancia germanici meglio dei partiti tradizionali. Questo vale sulla carta il 20 per cento dei suffragi, naturalmente insufficienti a dare il governo alla algida Alice Weidel. Aspettiamoci un’altra legislatura di fuochi artificiali che metteranno a dura prova la sala dei comandi: sputare dall’opposizione è un mestiere più facile che condurre un paese nel mare delle complessità globali.

Il più probabile sodale di Merz ha la faccia rotonda del premier uscente, Olaf Scholz, leader in ritirata della compagine socialdemocratica a cui si attribuisce circa il 15 per cento dei voti, dieci punti in meno rispetto a inizio legislatura. Visti così, i due “alleati per forza” non hanno la maggioranza, ma l’intricato sistema elettorale – in parte proporzionale, in parte uninominale, con sbarramento al 5 per cento – potrebbe disegnare uno scenario diverso.

Soprattutto se i tre partiti che girano intorno alla soglia dell’esclusione – la sinistra di Die Linke e di Bsw, i liberali in caduta libera Fdp – non dovessero farcela. La loro uscita di scena porterebbe Cdu/Csu e Spd oltre il 50 per cento. Se non fosse, la soluzione dei problemi potrebbe essere un patto coi Verdi (13 per cento nei sondaggi), esito da vero ginepraio visto che Merz, per risalire la china, ha promesso un dietrofront sulle politiche sinora ambiziose per l’ambiente. «La priorità della nostra azione deve essere il ritorno della crescita», ha assicurato l’aspirante premier, desideroso di anteporre il salvataggio dei posti di lavoro a quello del Pianeta.

La situazione socioeconomica

Da due anni la produzione industriale tedesca è sotto zero. Da uno e mezzo la congiuntura è in recessione. La manifattura ha bruciato 100 mila posti nel 2024. Il Paese soffre la concorrenza cinese nel settore auto e il caro energia seguito all’aggressione dell’Ucraina. La crescita delle diseguaglianze ha portato il trionfo di AfD nelle regioni depresse dell’ex Germania Est.

Il diffondersi dell’incertezza sul futuro in una nazione che ama essere prevedibile ha bruciato convinzioni consolidate e le ha sostituite con slogan nuovi che sanno di vecchio, centrati sulla necessità di rimettere i tedeschi al centro della Storia, di bonificare il paese e di chiudere completamente le frontiere. Come successo negli Stati Uniti con Trump, anche gli operai e stranieri di seconda generazione si sono convinti dell’esigenza di difendere lo status quo e la propria sicurezza a qualunque costo, alzando muri e smettendo di spendere soldi per la protezione del clima.

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È inevitabile che Merz ascolti queste voci. Preoccupato per il rischio di una crisi finanziaria che reputa dietro l’angolo, il leader cristianodemocratico promette di affrontare col pugno duro i Paesi ad alto debito che non risanano (Italia compresa e lo dice anche l’AFd), il che peserà nei suoi rapporti con l’Ue, dove contrasterà l’ipotesi di fare cassa comune per progetti di sviluppo comunitari (eurobond o simili).

Le ricadute sull’Europa

L’Europa, piaccia o no, ha bisogno che almeno Berlino e Parigi tirino il carro per funzionare. Merz, se nominato, sarà meno malleabile di Scholz. Le sue parole sull’Unione che non deve contare su Trump per la difesa, l’invito alla autonomia strategica, il dialogo per rafforzare il mercato dell’energia, la volontà di non lasciar cadere con Kiev i valori a dodici stelle, ne fanno un concorrente possibile per guidare, auspicabilmente non da solo, il processo di riforma del Patto a ventisette.

L’Ue ha bisogno di un chiodo a cui attaccare la necessaria profonda ristrutturazione di se stessa. Merz, se vincerà e se manterrà le promesse, può contribuire a convincere tutti a stare insieme e a fare il loro meglio. L’alternativa è il nazionalismo sociale e un’instabile incertezza. L’alternativa per la Germania, senza dubbio. Ma anche per l’Europa.



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