La guerra nel Congo orientale: crisi umanitaria e rischi di golpe nel Paese che «alimenta» i nostri smartphone

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Michele Farina

Intervista con Giovanni Carbone, responsabile del programma Africa dell’ISPI: l’avanzata dei ribelli dell’M23, il ruolo del Ruanda tra lotta per le ricchezze minerarie e contrapposizione tutsi-hutu. Perché in un’epoca di crescente imperialismo i confini tra i Paesi del continente restano intoccabili

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Mentre gli occhi del mondo sono rivolti altrove, nel Congo orientale si è riacceso un conflitto che porta nuove sofferenze a una popolazione per cui la violenza è l’unico pane davvero quotidiano, una terra da decenni in bilico tra strazio e speranza. Ne parliamo con Giovanni Carbone, professore ordinario di Scienza politica all’Università degli Studi di Milano, responsabile del Programma Africa dell’ISPI e autore di diversi libri che raccontano gli scenari di un continente lasciato spesso nell’ombra.

Partiamo dalla crisi umanitaria…
«Una crisi endemica che si è acuita dopo l’ultima offensiva dei ribelli dell’M23 nelle regioni del Nord e del Sud Kivu, dove già prima di gennaio si parlava di 4,6 milioni di sfollati, su un totale di quasi 7 milioni nel Paese. Nelle ultime settimane si sono registrati nuovi flussi di alcune centinaia di migliaia di persone in fuga, costrette ad abbandonare le proprie abitazioni. Già nella fase iniziate, con la presa della città di Goma, si è fatto riferimento a tremila morti, vittime degli scontri tra ribelli ed esercito congolese, ma sono stime conservative. In questo contesto la crisi alimentare e sanitaria si aggiunge alle difficoltà preesistenti in queste aree, e le aggrava. Anche le ong internazionali che vi operano sono ormai schiacciate dalla nuova emergenza. È una terra in cui purtroppo, negli ultimi trent’anni, non si è mai davvero riusciti a mettere fine alle violenze – ci sono oltre un centinaio di gruppi armati di vario genere – e a dare un po’ di sicurezza alla vita dei congolesi che la abitano». 




















































La guerra è devastazione…
«Le condizioni di vita si deteriorano per tutti, non solo per gli sfollati. E parliamo di un’area molto popolata, cronicamente pressoché priva di amministrazione e servizi. Su un Paese di 110 milioni di abitanti, una buona quota abita le regioni dell’Est di cui parliamo. La Repubblica Democratica del Congo è vasta quanto tutta l’Europa occidentale, e complessivamente ha una densità di popolazione molto bassa, circa 50 persone per chilometro quadrato. Le regioni dell’Est però sono tra le più popolate del Paese, e anche per questo al centro di tensioni. Non a caso il vicino Ruanda ha una densità di quasi 600 persone per chilometro quadrato, tre volte quella italiana».

La guerra nel Congo orientale purtroppo non è una novità. Perché?
«Sì, la violenza si protrae fin dagli anni Novanta, quindi da ormai trent’anni. Il recente acuirsi della crisi ripropone dinamiche già note e motivazioni irrisolte».

Quali sono? 
«Si tende sempre a evidenziare il ruolo delle risorse minerarie, di cui l’East Congo è ricchissimo. Ed è indubbiamente un elemento centrale. Ma non è di secondo piano la questione identitaria e di sopravvivenza del regime ruandese. Kigali spiega la propria posizione unicamente in questa chiave. Non è solo propaganda, c’è anche la sostanza di un mosaico identitario complesso. Parliamo di un’area del Paese molto lontana dall’Atlantico e dalla capitale congolese Kinshasa, che dovrebbe governarla. Le regioni orientali sono grossomodo nel centro dell’Africa, adiacenti a Ruanda, Uganda e Burundi: è un’area del Congo in cui storicamente vive anche, tra tante altre comunità, una minoranza tutsi, etnia solitamente associata al Ruanda. In effetti quella tutsi è una popolazione che vive e proviene sostanzialmente da lì. Ma è da lunghissimo tempo che abita anche quella parte della Repubblica Democratica del Congo. Poi, con la fine del genocidio dei tutsi in Ruanda nel 1994, si sono riversati oltreconfine anche centinaia di migliaia di hutu in fuga per timori di vendette. Alcuni di questi erano persone vicine al regime responsabile del genocidio, se non direttamente coinvolte nei massacri. Da allora, il nuovo regime post-genocidio che si è insediato a Kigali, a base tutsi, vede quell’area congolese come una minaccia, una spina nel fianco da cui partono incursioni per destabilizzarlo e metterne a rischio la sopravvivenza. Parliamo di incursioni da parte di formazioni armate a base hutu attive in territorio congolese, tra le quali ci sono le Forze democratiche di liberazione del Ruanda che, nel 2021, avrebbero ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio proprio in un agguato nel Congo orientale».

Perché i tutsi congolesi, da ultimo i ribelli del gruppo M23, combattono contro l’esercito di Kinshasa?
I tutsi congolesi hanno una serie di recriminazioni rispetto a soprusi, violenze, discriminazioni di cui sono o si ritengono vittime. Da questa comunità ha preso corpo una quindicina di anni fa nella regione del Nord Kivu una formazione armata che si dice di “autodifesa”, che ora si fa chiamare M23. Circa tre anni fa questo gruppo, che era rimasto per un po’ di tempo in sonno, ha cominciato a riattivarsi e a estendere la propria area di influenza. E a gennaio di quest’anno la situazione è esplosa, con l’avanzata dell’M23, in parte inattesa, almeno per la sua rapidità, e l’occupazione di nuovo territorio da Goma a Bukavu, il capoluogo del Sud Kivu». 

E il ruolo del Ruanda?
«L’M23 è una formazione allineata con il regime ruandese. Kigali sostiene di non armare i ribelli. In realtà è cosa risaputa che il legame c’è, ben visibile anche per elementi come l’equipaggiamento dei miliziani e un certo grado di formazione, disciplina e capacità, anche strategiche, che sembrano caratterizzarne le azioni. Stiamo quindi parlando di una ribellione formalmente interna al Congo ma fortemente appoggiata dal Ruanda».

E lo sfruttamento delle risorse minerarie?
«Io tendo a sottolineare l’aspetto identitario perché è spesso quello trascurato dai resoconti mediatici di queste settimane – forse anche perché è meno intuitivo, più complesso da comprendere – ma è indubbiamente centrale anche quello delle risorse, un elemento che fa più notizia, perché sembra riguardarci più da vicino. Cobalto, coltan, tungsteno, stagno, oro, e altro ancora. Sono minerali di grande valore che si estraggono in abbondanza nel cuore dell’Africa, diversi diventano poi componenti dei nostri smartphone, laptop o veicoli elettrici. E tutti li vogliono». 

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Tutti chi?
«Sicuramente ci sono tanti attori internazionali interessati. Stati e società minerarie. La Cina e le società cinesi sono estesamente coinvolte, ma non sono certo le sole. Anche l’Unione europea di recente ha stipulato un controverso pre-accordo con il Ruanda per lo sviluppo delle catene del valore delle materie prime, di cui tanti adesso chiedono la sospensione».

I minerali estratti in Congo nelle zone controllate dall’M23 prendono la via del Ruanda per essere commercializzate. L’Occidente sta zitto?
«Dopo il genocidio del 1994 il Ruanda è diventato un Paese molto vicino all’Occidente. Un po’ per il senso di colpa occidentale, un po’ come riconoscimento per la capacità di un regime che, dopo gli eccidi, è stato effettivamente in grado di stabilizzare e sviluppare il Paese. Il Ruanda funziona molto meglio della vasta maggioranza degli altri Stati africani dal punto di vista amministrativo e anche dell’efficacia militare. La sua economia cresce del 7,5% all’anno da 25 anni. Europa e Stati Uniti l’hanno tendenzialmente sostenuto, aiutato e coccolato. Ma Kigali ha rapporti stretti anche con altri amici, come Cina, Qatar, Turchia».

E la Repubblica democratica del Congo?
«Anche Kinshasa ha l’attenzione di tanti attori esterni, soprattutto per i rapporti economici e le concessioni minerarie. Anche perché formalmente le ricchezze di cui parliamo sono in territorio congolese e dunque “spettano” al governo e alla popolazione del Congo. Per questo le azioni dell’M23 nell’Est del Paese, sostenute dal Ruanda, sono stata formalmente criticate da tutti, anche nello stesso Consiglio di Sicurezza dell’Onu dove i veti reciproci sono normalmente di casa. Il Consiglio di Sicurezza ha condannato le violenze e invitato tutti gli attori esterni a smettere di interferire e a ritirarsi dal territorio congolese, ma senza nominare direttamente il Ruanda. Alcuni Paesi occidentali sono stati più espliciti con Kigali, ma in termini di sanzioni è stato fatto poco o nulla».

Perché la guerra è divampata all’inizio del 2025?
«Il movimento M23, e soprattutto il Ruanda che è arrivato ai ferri corti con il governo di Kinshasa, hanno valutato che fosse un momento opportuno per dare un’accelerata all’estensione del loro controllo e della loro influenza sulla regione: mettere in sicurezza un’area con elementi ostili e mettere ancora di più le mani sulle ricchezze del sottosuolo. Che spesso provengono da miniere di carattere artigianale, a cielo aperto, per cui non servono necessariamente grandi aziende con investimenti su larga scala e apparecchiature sofisticate, ma tante braccia, tanta forza lavoro. Sotto l’M23, i minatori continuano la loro attività, pagano dei tributi ai ribelli, e i minerali vengono in parte convogliati e venduti attraverso il Ruanda stesso, che infatti ha visto aumentare in modo cospicuo le proprie esportazioni».

Dove può arrivare l’avanzata dei ribelli appoggiati dal Ruanda?
«Qualcuno all’interno del movimento ha affermato che si può e si vuole arrivare a rovesciare il governo congolese. Dal Kivu a Kinshasa però sono più di 2.500 chilometri, in parte coperti di foreste. Una bella distanza. D’altra parte un’operazione del genere non sarebbe la prima volta che viene realizzata: alla fine del millennio scorso i ribelli che abbatterono Mobutu, il generale che fu a capo del Congo tra gli anni Sessanta e la metà degli anni Novanta, appoggiati da Uganda e Ruanda partirono proprio dal Congo orientale. Non si può escludere del tutto una nuova cavalcata di questo tipo attraverso il Paese, che naturalmente allargherebbe ulteriormente i costi umani e materiali delle violenze. Ma ci sono altri scenari che mi sembrano più probabili. Il governo del presidente Félix Tshisekedi ormai traballa di suo, internamente, accusato di incapacità nell’affrontare i ribelli e nel pacificare le regioni in cui operano. Da qui i malumori nell’esercito, che potrebbero sfociare in un golpe o comunque in un cambio forzato ai vertici a Kinshasa, non (o meno) direttamente controllato dal Ruanda o dai ribelli».

I colpi di Stato in Africa non fanno quasi più notizia…
«Fanno ancora notizia, ma certo sono diventati un’opzione e una possibilità ben più di quanto non lo fossero dieci o quindici anni fa. All’epoca era più difficile compierli, in un certo senso sembravano una cosa del passato, fuori moda. Oggi no: dopo tutti i golpe che in anni recenti si sono susseguiti negli Stati del Sahel, dall’Atlantico al Mar Rosso, oltre che in Gabon e Guinea, una presa del potere da parte dei militari anche a Kinshasa diventa meno impensabile». 

Anche perché sembra improbabile che le sorti del conflitto nell’Est possano cambiare. Chi schioda l’M23?
«L’esercito congolese è noto per la sua inconsistenza: poche armi, scarsa preparazione, soldati pagati male, abusi sulla popolazione civile. Non proprio indomabile per l’M23».

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Una guerra aperta con Kinshasa non è nell’interesse del Ruanda del presidente Paul Kagame…
«Ma se l’obiettivo è quello di arrivare a Kinshasa, e non possiamo del tutto escluderlo, è difficile che i miliziani dell’M23 riescano a farlo da soli. Il Ruanda dovrebbe uscire allo scoperto, e a quel punto potrebbero esserci reazioni di altri Stati della regione. Un po’ come avvenne tra il 1998 e il 2003, nella cosiddetta Grande guerra africana. Alcuni Paesi sono più vicini al regime congolese, come il Sudafrica, che ha alcune truppe sul terreno come parte di una missione regionale, e il Burundi, ostile al Ruanda per ragioni proprie. Ma per ora è tutt’altro che ovvio capire quali Stati sarebbero davvero disposti a intervenire apertamente nel conflitto, sostenendone rischi e costi, e quali alleanze si fronteggerebbero».

Sia il Congo che il Ruanda fanno parte della Comunità dell’Africa Orientale. Che però non ha saputo o voluto esercitare pressioni su Kigali…
«Sì, da parte dei vicini della Comunità dell’Africa Orientale – che ruota attorno a Stati come Kenya, Tanzania e Uganda – c’è stata una certa reticenza nel condannare le interferenze e azioni ruandesi in Congo. Anzi, si è di fatto appoggiata la richiesta di Kigali, che continua a dirsi estranea ai fatti, affinché il governo congolese negozi direttamente con l’M23, cosa che Kinshasa si rifiuta di fare».

Invece c’è stato uno scontro acceso con i vicini del Sud…
«La Sadc, la Comunità per lo sviluppo dell’Africa meridionale, ha truppe di peacekeeper nella regione del Kivu. Soldati sudafricani sono rimasti uccisi negli attacchi dell’M23 e c’è stato uno scambio di accuse molto dure tra il presidente Cyril Ramaphosa e Paul Kagame. I rapporti tra i due Paesi non sono buoni. Il Sudafrica è uno degli attori di maggior peso in tutta l’Africa e una delle voci più critiche contro il regime di Kigali».

Il Sudafrica di recente ha preso qualche sberla anche da Donald Trump, forse ispirato dal nativo Elon Musk, sulla questione della redistribuzione delle terre tra bianchi e neri a trent’anni dalla fine dell’apartheid. Stante la passione di Trump per gli uomini forti, per di più muniti di ingenti ricchezze minerarie altrui, Paul Kagame dovrebbe andare a genio all’inquilino della Casa Bianca…
«Da un lato, gli Stati Uniti come gli altri membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu hanno chiesto una frenata al Ruanda, dall’altro Washington non ha alzato la voce con Kagame quanto avrebbe potuto fare, al netto delle sanzioni imposte pochi giorni fa ad un vice-ministro ruandese e ad un portavoce dell’M23. In un clima geopolitico caratterizzato da crescenti toni imperialisti, a Mosca come a Washington, l’atteggiamento aggressivo del Ruanda, che sia in una logica di sicurezza o di mero calcolo economico, fa meno scalpore. In Africa però fin dalle indipendenze degli anni Sessanta c’è un’avversione solida e condivisa per le modifiche dei confini e dei territori nazionali, più ancora che altre aree, e questo rappresenta un limite alle ambizioni che il governo ruandese potrebbe avere».

Anche se si tratta di confini imposti dai colonizzatori occidentali?
“Sì. Da un lato sarebbe troppo complicato e rischioso per tutti aprire alla possibilità di ridefinirli. Dall’altro, in molte regioni sono confini che di fatto non hanno grande significato se non sulla carta, perché la gente li attraversa, tutti i giorni, con più facilità rispetto ad altri luoghi del mondo dove le frontiere sono meglio presidiate o comunque controllate. Anche per via di questa formale intangibilità delle frontiere le guerre africane non sono state quasi mai guerre tra Stati volte a conquistare e sottrarsi territori. Nessuno riconoscerebbe la pretesa di modificare i confini. Con poche eccezioni, le crisi africane sono quindi anzitutto conflitti interni, anche quando ci sono chiare interferenze da fuori, come nel caso del Congo».

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