Le priorità sono il benessere delle persone, il rispetto del pianeta e degli animali. Non ha dubbi Simone Pavesi, responsabile Lav, Area Moda Animal Free che a nome della Lega anti vivisezione, in occasione dell’avvio della Settimana della Moda di Milano afferma: «Lasciamo agli addetti ai lavori ogni commento su estetica, creatività, tradizione e innovazione delle proposte moda. Ma, facciamo nostro l’appello di Collective Fashion Justice, aderendo al Manifesto Total Ethics Fashion».
Persone, pianeta e animali da salvaguardare
E la prima conseguenza è quella di chiedere «ai brand ed in primis alle case di moda italiane di dare priorità alla vita e al benessere delle persone (impiegate in ogni livello della produzione), al rispetto del pianeta (sfruttato e degradato dalle produzioni moda) e degli animali, senza ricorrere alle false promesse di tutela tipiche delle cosiddette certificazioni “responsabili”».
Mentre i riflettori di tutto il mondo sono puntati sulle passerelle milanesi per scoprire le proposte e le novità della moda autunno inverno 2025-26 gli animalisti ricordano non solo l’approssimarsi della deadline del 2030, ma anche il fatto che l’intero sistema moda, nonostante le dichiarazioni e gli impegni assunti anche nell’ambito di note coalizioni internazionali sulla Sostenibilità, rischia di non raggiungere il traguardo degli Obiettivi per uno Sviluppo Sostenibile.
Andare oltre al claim della sostenibilità
La sostenibilità è troppo spesso utilizzata come semplice claim e sempre meno come reale e concreta consapevolezza della necessità di un cambiamento radicale del modello produttivo e di approvvigionamento di materie prime.
In una nota si sottolinea come, lavoratori, pianeta, animali sono da sempre tutti ugualmente vittime del profitto dei marchi del lusso e non solo.
«Senza andare troppo lontano verso Paesi asiatici carenti di normative e controlli, non possiamo non dimenticare le inchieste giudiziarie che solo nell’ultimo anno hanno interessato, qui in Italia, noti brand globali per avere commissionato le produzioni a società appositamente create al fine di massimizzare i profitti tramite pratiche illegali, come: caporalato, impiego irregolare e sfruttamento dei lavoratori negli opifici, assenza di condizioni di sicurezza, macchinari non a norma, manodopera irregolare e clandestina, sfruttamento dei prezzi (con articoli moda pagati poche decine di euro alla produzione ma rivenduti al cliente finale a migliaia di euro)» ricordano gli animalisti della Lav.
Gli animali non sono solo “materiali da sfruttare”
Nella nota si sottolinea inoltre come per l’industria dell’abbigliamento troppo spesso gli animali sono concepito come mere risorse di approvvigionamento di materiali (per le pelli, pellicce, piume per imbottiture o decorative, filati), mentre i brand «si affidano a certificazioni di filiera ideate dagli stessi produttori con la finalità di rassicurare i consumatori circa il buon trattamento degli animali. Certificazioni che – continua la nota della Lav -, se analizzate nei protocolli gestionali, in realtà non assicurano mai alcun migliore trattamento rispetto ai minimi parametri di legge e che comunque non garantiscono una vita naturale (per qualità e durata) per ogni singolo animale che, suo malgrado, è parte della filiera».
Il percorso Animal Free Fashion
Per incoraggiare le aziende della moda a essere più sostenibili ed etiche, almeno per quanto riguarda l’impiego di materiali animali, Lav ha da tempo ideato il rating Animal Free Fashion: un percorso verso la progressiva dismissione dei materiali animali scandito in quattro step principali e ai quali è assegnata una valutazione (V= stop all’uso di pellicce; VV=pellicce e piume; VVV= pellicce, piume, pelli; VVV+= pellicce piume, pelli e filati).
Infine, tramite il sito web dedicato Lav conferisce valore alle corporate policy delle aziende moda, rendendole pubbliche, e mette a disposizione un database di Next-Gen Materials (materiali sostenibili di nuova generazione e privi di componenti animali)
In apertura AP Photo/Luca Bruno LaPresse
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