Lo studio del 2023 di 4 Day Week Global
La settimana lavorativa corta è un tema discusso da tempo, con diversi esperimenti che hanno coinvolto più paesi.
Recentemente tra i più importanti troviamo lo studio diffuso nel 2023 dall’associazione non-profit 4 Day Week Global, condotto nel Regno Unito tra giugno e dicembre 2022.
Il progetto è stato realizzato prendendo in riferimento un campione di 2.900 dipendenti e 61 aziende di diversi settori. I soggetti coinvolti dovevano sperimentare nel periodo considerato il modello 100 – 100 – 80, prevedendo a parità di salario (100) e di produttività (100) la riduzione dell’orario lavorativo da 40 a 32 ore (80), con libera scelta della distribuzione settimanale.
I risultati dello studio
La maggior parte delle aziende ha optato per il venerdì libero e quindi per quattro giorni lavorativi seguiti da tre non lavorativi. Al termine dell’analisi, è risultato che 56 aziende delle 61 coinvolte hanno optato per mantenere la riduzione oraria, incoraggiate dai dati fortemente a favore di tale decisione.
In particolare, il dato che più ha colpito è stato sicuramente quello che coinvolge il fatturato, con un incremento medio del 35% in considerazione del confronto tra i sei mesi di progetto rispetto ad un equivalente periodo di tempo in cui la settimana era di cinque giorni.
Impatti sulla salute e sul benessere dei lavoratori
Accanto agli ottimi risultati economici, le aziende hanno, inoltre, riscontrato un miglioramento in termini di clima aziendale, effettuando apposite indagini interne da cui è emerso che il 39% del personale intervistato si diceva meno stressato rispetto a prima e che il 71% aveva ridotto il proprio livello di burnout.
Tali dati sono andati di pari passo con i risultati del turnover del personale, con un calo del 57% delle dimissioni nel periodo considerato.
La riduzione dell’orario di lavoro ha portato anche a una diminuzione dell’ansia, della stanchezza e dei disturbi del sonno, mentre le condizioni di salute psico-fisiche dei dipendenti sono complessivamente migliorate.
Inoltre, le richieste di permesso sono calate del 65%, passando da una media di 2 a 0,7 giorni al mese per ogni dipendente.
Il contributo di Juliet Schor
Lo studio è stato condotto in collaborazione con l’economista e sociologa del Boston College Juliet Schor, una delle principali promotrici della settimana corta che già in passato, con il bestseller degli anni ’90 The Overworked American, prendendo in riferimento la popolazione americana, indagava sull’orario lavorativo, il consumismo e l’equilibrio tra vita privata e lavoro.
Schor ha da sempre influenzato il dibattito sulla riduzione delle ore lavorative, sostenendo che la stessa potrebbe migliorare il benessere individuale e collettivo favorendo una società meno consumistica e più orientata ad un miglioramento della qualità di vita.
Il dibattito post-pandemico e le “grandi dimissioni”
Il dibattito si è ulteriormente intensificato negli ultimi anni post pandemici, spostandosi in particolare sul tema dell’employee retention. È cosa ormai nota, infatti, che le aziende a partire dal periodo post Covid-19 stanno riscontrando difficoltà nel trattenere il personale in forza e a reclutarne di nuovo.
Come analizzato dalla sociologa Francesca Coin, nel libro “Le grandi dimissioni”, in questo periodo un numero crescente di persone ha scelto di lasciare il lavoro, rifiutando un modello tradizionale che lega strettamente la propria identità al lavoro e alla produttività. La scelta di rinunciare al lavoro per migliorare la qualità della vita è vista come una forma di liberazione, in cui i lavoratori si riprendono il tempo per sé stessi, mettendo in discussione la priorità data al lavoro come unica fonte di realizzazione personale.
Nonostante ogni settore presenti le proprie particolarità, tra le cause più comuni che hanno portato a questa tendenza possiamo trovare l’eccessivo stress, le basse retribuzioni e la ricerca di una maggiore conciliazione tra vita e lavoro.
La settimana lavorativa corta come soluzione innovativa
La settimana lavorativa corta è andata proprio a inserirsi in questo contesto, ponendosi come aspetto di innovazione che le aziende possono offrire al fine di accrescere la loro immagine e imporsi sul mercato del lavoro distinguendosi dalle competitor.
Oltre all’aumento del benessere individuale che, come visto, andrebbe di pari passo con l’incremento di produttività e miglioramento del clima aziendale generale, la riduzione dell’orario lavorativo settimanale è stata oggetto di diversi studi e discussioni riguardo ai suoi potenziali effetti sul benessere collettivo e sul miglioramento di aspetti come il tasso di disoccupazione.
Il punto di vista di Richard Layard
Come sostiene l’economista britannico Richard Layard nell’opera, “Happiness: Lessons from a New Science”, quando si riduce la quantità di ore lavorative, più persone possono essere coinvolte nel mercato del lavoro. In poche parole, invece di permettere che molte persone lavorino molte ore, si potrebbero distribuire le ore di lavoro tra un numero maggiore di individui.
Questo approccio, secondo Layard, potrebbe portare ad un graduale calo del tasso di disoccupazione in considerazione dell’incremento delle opportunità di impiego.
Layard va anche oltre il lato economico, toccando anche la dimensione sociale e psicologica. Se più persone trovassero un’occupazione, questo fattore potrebbe impattare su ulteriori aspetti, quali:
- Maggior coesione sociale: le persone che lavorano meno ore avrebbero più tempo libero da dedicare alla famiglia, agli amici e alla comunità. Questo potrebbe migliorare la qualità delle relazioni sociali e ridurre la solitudine e l’isolamento;
- Miglioramento della qualità della vita: una riduzione dell’orario di lavoro potrebbe contribuire a un miglior equilibrio tra vita privata e professionale, riducendo lo stress e aumentando la soddisfazione personale;
- Più tempo per attività non remunerate: la riduzione delle ore lavorative permetterebbe alle persone di dedicarsi ad attività non legate direttamente al lavoro remunerato, come il volontariato, la cura della famiglia o la partecipazione a iniziative locali. Queste attività possono avere un impatto positivo sulla comunità e sul benessere collettivo.
Casi aziendali italiani
Tutte queste considerazioni hanno sicuramente incentivato alcune aziende a muoversi in tal senso, anche nel nostro paese dove tra i più noti troviamo i casi di Intesa San Paolo, Lamborghini e Luxottica.
Nel 2023 Intesa San Paolo ha introdotto la possibilità per i propri dipendenti di chiedere la distribuzione dell’orario lavorativo settimanale su 4 giornate con una leggera riduzione del monte ore a parità di stipendio.
I dipendenti dell’Istituto bancario, infatti, ordinariamente lavorano 37,5 ore alla settimana distribuite per 7,5 ore al giorno su 5 giornate.
Tuttavia, gli stessi possono chiedere, in accordo con il proprio responsabile e in coordinamento con il team, la riduzione delle giornate lavorative settimanali da 5 a 4, con 9 ore lavorative giornaliere per un totale di 36 ore settimanali.
Oltre ad apportare maggior benessere tra il personale, il modello adottato non ha comportato problematiche di carattere organizzativo o di continuità nei servizi, tanto da confermarsi come modello definitivo da cui sarà difficile tornare indietro.
Altri Dettagli
Sempre nel 2023, Lamborghini ha siglato un accordo sindacale per introdurre una riduzione strutturale dell’orario di lavoro, mantenendo invariato lo stipendio.
In particolare, l’accordo ha previsto l’implementazione di nuovi modelli di orario di lavoro e di turnazione che, a parità di retribuzione, permettono l’alternanza tra settimane di quattro giorni e settimane di cinque.
In tal modo, i lavoratori potranno beneficiare di un venerdì libero ogni due settimane (per i reparti con turnazione su due turni) oppure di due venerdì liberi ogni tre settimane (per i reparti con turnazione su tre turni).
Similarmente, Luxottica ha da poco avviato un programma sperimentale su base volontaria, che prevede una riduzione dell’orario di lavoro da 40 a 32 ore settimanali per un periodo di venti settimane. L’orario viene distribuito su quattro giorni lavorativi, dal lunedì al giovedì, con turni di otto ore al giorno. Tutto ciò comporta ai dipendenti il beneficio di avere venti venerdì liberi all’anno, il tutto a parità di retribuzione garantita dal fatto che cinque venerdì liberi sono detratti dai permessi retribuiti, mentre dei restanti quindici è l’azienda a farsene carico.
I dati e gli esempi riportati, dunque, fanno ben sperare tutti coloro che guardano di buon occhio un cambiamento in tal senso nel mondo del lavoro.
Tuttavia, la questione rimane complessa per le numerose variabili di cui non si può non tener conto, come le specificità settoriali, la cultura aziendale e le specifiche circostanze economiche.
Criticità e resistenze culturali
Esistono, infatti, diverse argomentazioni e ricerche che sollevano preoccupazioni rispetto alla settimana lavorativa corta, in particolare su alcuni aspetti quali il calo della produttività, l’aumento dei costi aziendali, le difficoltà di adattamento per alcuni settori e le resistenze culturali.
Tra i più cauti rispetto al tema della settimana lavorativa corta troviamo ad esempio John Pencavel, accademico ed economista della Stanford University, il quale mette in guardia sugli effetti negativi che potrebbe avere in determinati settori.
Pencavel esprime perplessità sulla riduzione delle ore lavorative nei settori ad alta intensità cognitiva, dove il lavoro richiede una forte concentrazione mentale e l’elaborazione di informazioni complesse.
In tali contesti, l’intensificazione delle ore lavorate in un tempo ristretto potrebbe non compensare il tempo ridotto per completare le attività e potrebbe, al contrario, portare ad un aumento degli errori e a una diminuzione della qualità complessiva del lavoro.
Pencavel e l’efficacia operativa
Secondo Pencavel, quando il lavoro è mentalmente impegnativo, ridurre il numero di ore a disposizione per completarlo può limitare l’efficacia complessiva. La fatica cognitiva accumulata durante la giornata lavorativa potrebbe non essere completamente recuperata nei giorni di riposo, mentre l’intensificazione delle ore lavorative potrebbe portare a un declino della concentrazione e della capacità decisionale.
L’economista londinese ha anche esaminato i settori in cui le prestazioni fisiche sono fondamentali, come l’edilizia, la manifattura e i servizi assistenziali. In questi ambiti, lavorare in modo intensivo per un numero inferiore di giorni potrebbe ridurre la produttività complessiva, in quanto la performance fisica e la capacità di resistenza dei lavoratori potrebbero non essere sostenibili su un numero ridotto di giorni, rischiando così di compromettere anche la sicurezza sul luogo di lavoro.
Oltre alla produttività, lo scetticismo sulla riduzione di ore lavorative verte anche sull’aumento dei costi aziendali.
Articolo della Harvard Busienss Review
Nel 2019 la Harvard Business Review ha pubblicato un articolo, intitolato “The Pros and Cons of a 4-Day Workweek”, nel quale tra i possibili fattori negativi indicava l’aumento dei costi operativi e di adattamento che i datori di lavoro riscontrerebbero con il nuovo modello organizzativo. Questo interesserebbe particolarmente le aziende con orari di lavoro estesi e una presenza continua per coprire il servizio clienti.
Nello specifico, i settori come la vendita al dettaglio, l’assistenza sanitaria e le imprese di servizio spesso necessitano di una copertura oraria 7 giorni su 7, che potrebbe essere difficile da mantenere con un numero ridotto di giorni lavorativi per ciascun dipendente. Il tutto porterebbe le aziende a organizzare turni aggiuntivi o assumere più personale per coprire i giorni e le ore restanti, determinando aumenti salariali o incrementi di assunzioni, incidendo, di conseguenza, sui costi operativi.
Le aziende, inoltre, potrebbero essere costrette ad affrontare costi di adattamento per implementare la settimana lavorativa corta, come la ristrutturazione delle operazioni o l’investimento in tecnologie di gestione del lavoro per ottimizzare la pianificazione e ridurre il rischio di disservizi.
Resistenze Culturali
Un altro aspetto da non sottovalutare riguarda sicuramente le resistenze culturali. In molte società capitaliste, infatti, il lavoro è percepito come un elemento fondamentale dell’identità personale.
L’idea di “fare carriera”, sacrificando il tempo libero per ottenere maggiore successo e guadagni, è profondamente radicata nella cultura. Di conseguenza, molte persone percepiscono il tempo libero come un lusso accessibile a pochi.
Molte culture aziendali tendono a premiare la visibilità e il tempo trascorso in ufficio invece che i risultati concreti. In queste organizzazioni, la costante presenza viene considerata sinonimo di efficienza, mentre il lavoro flessibile è spesso valutato indicatore di minore produttività.
La modifica di questa visione potrebbe essere percepita come una minaccia all’identità legata al lavoro. La settimana lavorativa corta potrebbe essere interpretata da alcuni come una diminuzione del valore professionale o come un segnale di scarsa motivazione da parte dei lavoratori.
Il futuro della settimana lavorativa corta
Il dibattito su questo tema è ancora molto acceso. Tuttavia, risulta chiaro che è un possibile cambiamento dipende da tre fattori fondamentali:
- L’adozione di un approccio sperimentale, poiché non esiste una soluzione universale adatta a tutte le realtà aziendali.
- La necessità di flessibilità, sia da parte dei dipendenti che dei datori di lavoro, al fine di individuare soluzioni che migliorino il benessere dei lavoratori senza danneggiare gli interessi aziendali.
- L’azienda deve essere pronta a mettersi in gioco e a perseguire l’innovazione con determinazione.
Modelli Ibridi
Non si può escludere che l’introduzione della settimana lavorativa corta avvenga attraverso l’adozione di modelli ibridi, che permettano alle aziende di adattarli gradualmente alle proprie strutture organizzative.
Ad esempio, si potrebbe optare per una leggera riduzione dell’orario settimanale, oppure implementare la settimana corta in determinati periodi dell’anno, quando si registra una diminuzione della produttività.
In ogni caso, sarà essenziale che le aziende si confrontino con le peculiarità del proprio settore, passando per una fase sperimentale che consenta di “modellare” il miglior modello organizzativo che si adatti al tipo di attività.
La specificità di ciascuna realtà induce a riflettere che difficilmente si verificherà da parte del legislatore una normativa ad hoc volta a diminuire universalmente le ore lavorative settimanali.
I singoli governi potrebbero incentivare le tendenze mostrate finora a livello aziendale, introducendo misure volte a contrastare l’impatto economico che una riorganizzazione di questo tipo comporterebbe sulle aziende.
In ogni caso, è ipotizzabile che molto verrà demandato alla contrattazione di secondo livello, in modo da favorire la negoziazione tra le parti coinvolte a livello aziendale o territoriale.
Gli accordi sindacali, inoltre, potrebbero consentire alle aziende di fissare un termine alla modifica di orario o di collocazione della settimana lavorativa, in modo da avere la possibilità di sperimentare e, eventualmente, modificare il modello adottato.
Le aziende che decideranno di adottare una settimana lavorativa ridotta dovranno affrontare sfide legate alla copertura oraria, ai costi operativi e alla produttività. Ciononostante, con un’attenta pianificazione, l’ottimizzazione dei processi e l’utilizzo di tecnologie avanzate, è possibile implementare soluzioni che bilanciano i benefici della settimana corta con le esigenze operative.
L’importanza della flessibilità
La flessibilità è la chiave per permettere che la riduzione delle ore di lavoro non comprometta la continuità delle attività aziendali.
Era il 1926 quando Henry Ford introdusse l’orario settimanale da 48 a 40 ore, passando così da una settimana lavorativa di sei giorni a una di cinque.
Questa riduzione fu una mossa strategica, non solo per migliorare le condizioni di lavoro, ma anche per aumentare la produttività e diminuire il turnover, che fino a quel momento si attestava intorno al 370%.
Fu una scelta rivoluzionaria, un’evoluzione che contribuì fortemente all’espansione del fordismo e al modello di lavoro che conosciamo.
A distanza di un secolo, le sfide e le opportunità che la riduzione delle ore lavorative (e la settimana lavorativa corta) portano con sé ci invitano a riflettere se, oggi, un approccio simile possa essere la risposta alle esigenze contemporanee di benessere dei lavoratori e, al contempo, di sostenibilità aziendale.
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