Bologna, la trappola del negozio (e dei titolari) creati con l’intelligenza artificiale: «Merce scadente dalla Cina»

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di
Pierfrancesco Carcassi

Il sito dei «fratelli Tagliabue» funziona da mesi, falsa liquidazione pubblicizzata con un post su Facebook. «Lasciamo l’attività, troppa concorrenza e siamo diventati nonni». Decine di clienti furiosi

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«Con grande tristezza e le lacrime agli occhi, dobbiamo comunicarvi che dopo tanti anni di impegno nella nostra boutique Tagliabue è giunto il momento di arrenderci. È come se avessimo combattuto contro dei giganti, i cui enormi budget e potere ci hanno messo in difficoltà. Purtroppo, la nostra situazione finanziaria non è più sostenibile». Sotto il messaggio, una foto con due signori ben vestiti in posa davanti a una piccola vetrina di abbigliamento con l’insegna «Tagliabue»: sorridono, hanno i capelli bianchi e l’aria di chi ha lavorato una vita. «Per salutare questo capitolo stiamo organizzando una svendita speciale. Andiamo via a testa alta perché voi, i nostri clienti più fedeli, ci avete sempre supportato. Vi siamo eternamente grati».

È uno dei post sponsorizzati che circolano da prima di Natale 2024 su Facebook, annunciando la liquidazione dell’attività a Bologna. È firmato «Marco e Luca», i due titolari: spiegano che si ritirano anche per fare i nonni a tempo pieno: «È il momento di stare vicini alla famiglia». Difficile resistere alla svendita totale di «Tagliabue abbigliamento», con «sconti fino all’80 per cento». Decine di utenti comprano sul sito cappotti, giacche, maglioni, felpe e pantaloni per centinaia di euro. Più roba metti nel carrello, maggiore è lo sconto. 




















































Quando l’ordine viene recapitato a casa, le sorprese: la merce è di scarsa qualità, con taglie sbagliate e arriva dalla Cina. Il mittente è a Hong Kong, Bologna non c’entra nulla. I fratelli Tagliabue non esistono. La conferma arriva con un software di verifica immagini: le foto sono generate con l’intelligenza artificiale. Sui siti di recensioni si accumulano a decine le recensioni negative di clienti furiosi da tutta Italia: «è una truffa», «ci sono cascato», «vi denuncio». Il sito viene chiuso a febbraio 2025 (per riaprire pochi giorni dopo) e a tanti non resta che rivolgersi alla polizia.

Il dropshipping e la storia che mira alla «pancia» dei clienti

Quella dei «fratelli Tagliabue» – un cognome scelto probabilmente per il suono italiano – sembra l’ennesima, originale trappola online. Il sistema di vendita è legale: si tratta di un sito dropshipping, vetrina online che rivende prodotti di terzi, in questo caso capi d’abbigliamento che si trovano sui siti asiatici spendendo anche 30 volte di meno. 

Non sono veri negozi, ma solo intermediari che ricaricano sul prezzo. Tutto regolare, se l’operatore rende noto subito che il prodotto offerto viene ordinato da aziende estere; se questo dettaglio viene nascosto, può scattare una sanzione dell’Antitrust. 

Ma il sito-trappola va oltre: la mancanza di trasparenza è condita dalla storia strappalacrime. La lotta dei piccoli commercianti sopraffatti dai grandi negozi, l’amore per la famiglia sono ingredienti «umani» efficaci per far abbassare la guardia ai clienti. Le foto fasulle dei due anziani titolari sono efficaci, l’occasione di grossi sconti fa il resto. E quando i clienti si accorgono della realtà è troppo tardi.

«Prodotti dalla Cina? In bottega magazzino terminato»

«Ho visto l’annuncio su Facebook», racconta Marco, un utente siciliano invischiato nell’acquisto. Solitamente sono molto attento, questa volta sono stato più superficiale. Ho comprato capi per circa 200 euro; ma dopo qualche minuto ho scoperto le recensioni che segnalano la truffa. Ho inviato una mail chiedendo l’annullamento dell’ordine, mi hanno risposto alle 6 del mattino, orario insolito per l’Italia; io ho insistito per il rimborso evidenziando che non esiste un negozio fisico a Bologna con questo nome». 

Dall’altra parte, i «fratelli Tagliabue» rassicurano sulla qualità e sul tracciamento dell’ordine e passano alle giustificazioni – «il nostro magazzino di Bologna era esaurito, abbiamo dovuto fare approvvigionamento all’estero» – al mettere un muro – «non sono possibili resi e rimborsi». «Ho risposto – continua Marco – che avrei rimandato indietro la merce appena fosse arrivata e ho chiesto il modulo per il reso, mai ricevuto. Allora ho fatto denuncia per ottenere il rimborso presso la banca della carta con cui ho pagato e sono riuscito a recuperare i soldi». 

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Altri clienti non ce l’hanno fatta. «Non ho potuto fare denuncia», racconta Giulia, cliente del Lazio. «Quando mi sono rivolta alle forze dell’ordine mi hanno detto che non si poteva fare nulla perché la merce era effettivamente arrivata a destinazione. Ho inviato una segnalazione a Facebook ma nessuno mi ha risposto. Avevamo capito di essere stati ingannata appena ricevuto il codice per tracciare il pacco: rimandava alla Cina. Io e il mio compagno avevamo comprato giacche e maglioni di lana per quasi 200 euro. I capi erano tutti sintetici, senza etichetta, di taglie diverse da quelle richieste».

Come riavere i soldi

La denuncia è l’unica possibilità di rivedere i soldi. «Con Visa o Mastercard, basta rivolgersi alla banca o all’istituto che ha emesso la carta – suggerisce Rebecca Berto, consulente legale del Centro Europeo Consumatori Italia, nella sede di Bolzano – lo stesso vale per le Poste, dove si può fare anche con online; procedura anche per Nexi. Con Paypal ci sono due fasi: una prima di segnalazione e una seconda, da fare entro 20 giorni, per convertire la segnalazione in un reclamo». Casi simili si trovano in tutta Italia. «Il sistema del dropshipping è molto diffuso», spiega Berto. «Non è una pratica vietata ma presenta dei problemi nel far rispettare il codice del consumo». I nodi vengono al pettine quando il prodotto è diverso da quello promesso e si esercita il diritto di recesso. «Il cliente deve relazionarsi direttamente con la Cina ed è molto difficile effettuare il reso, anche per i problemi di comunicazione, senza contare gli eventuali costi di una spedizione in Asia».

Come riconoscere un sito a rischio

Nel sito «Tagliabue Moda» la lingua italiana dei testi presentava qualche «stranezza» che tradiva l’uso di un traduttore automatico. Ma la veste grafica era talmente simile a siti affidabili da risultare convincente a un’ occhiata superficiale. L’assenza dell’indirizzo fisico della società e della partita iva sono alcuni segnali che dovrebbero mettere in allarme: «A volte basta una ricerca online dell’indirizzo: così abbiamo scoperto un negozio inesistente, la sede dichiarata era un gommista», racconta la legale.  Il portale dei presunti «fratelli Tagliabue» era mascherato con astuzia: riportava la città, Bologna, ma non la via; scriveva gli orari di apertura, ma non la partita iva. 

E quando chi compra se ne accorge, il pagamento è già partito. Altri indizi di rischio sono meno evidenti: «Non è buon segno che come destinazione spuntino Paesi fuori dall’Europa», continua Berto. «La politica dei resi deve essere dettagliata e mettere nero su bianco prezzi e procedura. Se la spiegazione è assente, fumosa o copia solo paragrafi del codice del consumo bisogna preoccuparsi». 

Cosa c’è dietro? Il sito registrato  nei Paesi Bassi

Resta una domanda aperta. Chi c’era dietro il sito «Tagliabue Moda?» Di sicuro, visti gli errori nei testi del portale, non parla italiano. Il dominio si appoggiava al provider Shopify e i dati di registrazione, ora schermati, rimandavano a un indirizzo residenziale dei Paesi Bassi, dove ci sarebbero condizioni fiscali particolarmente favorevoli alle attività online. 

Come proprietario del dominio, un nome e un cognome che ritornano solo in uno specifico profilo social (appartenente a un ventenne olandese che si presenta come esperto di marketing) e ad annunci di lavoro che a fine 2024 cercavano «gestori di attività dropshipping in Italia» pubblicati su siti delle Filippine (guardacaso il Paese dei gestori della pagina Facebook). Omonimia? Prestanome? Impossibile saperlo.

La galassia di siti «gemelli»

Di siti che operano come «Tagliabue moda» ce ne sono oltre una decina. Il copione è sempre lo stesso: grafica curata, nomi e cognomi italiani nell’intestazione, ecommerce senza partita iva e immagini di qualità generate con l’intelligenza artificiale per pubblicizzare una svendita totale dovuta a concorrenza, furti o incendi

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Ciascun portale è specializzato in un settore diverso – abbigliamento, calzature, gioielli – e dice di avere una sede in una città italiana. A volte e davvero difficile distinguerli da botteghe «genuine». Nel dubbio, vale la regola d’oro: nessuno regala niente. Per chi propone affari (quasi) gratis, il prodotto siamo noi.

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25 febbraio 2025 ( modifica il 25 febbraio 2025 | 14:27)

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