Orwell, e la letteratura bignamizzata per non traumatizzare i figli scemi

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L’anno scorso volevo citare non so più che passaggio di Orwell in non so più cosa che stavo scrivendo. Poiché casa mia è piena di libri introvabili – perché nessuno può toccarli tranne me e io ho sempre qualcosa di più interessante da fare che metterli in ordine – ho fatto ciò che faccio ogni volta che non trovo un libro: l’ho ricomprato.

Poiché sono il genere di lettrice forte che sceglie i libri in base al loro essere gradevoli complementi d’arredo interni, ho scelto su Amazon l’edizione della “Fattoria degli animali” dai colori più coordinabili ai miei divani. Quando il giorno dopo il libro mi è arrivato, non conteneva il passaggio che mi serviva. Ohibò, com’è possibile?

È possibile, mia deliziosa sciocchina, giacché hai comprato un’edizione per scolari, di quelle in cui le parti meno ricevibili da un bambino vengono riassunte, i passaggi ostici vengono spiegati, e insomma quella che hai ordinato sta a “La fattoria degli animali” come il Bignami stava al sussidiario quando andavi a scuola.

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Ohibò, dunque il mio vantarmi di aver letto Orwell alle elementari era la solita mitomania, e quella che lessi allora era la versione italiana di quest’edizione per scolari inglesi, un Orwell semplificato per chi voglia dire «orwelliano» senza passare per la fatica dell’intero romanzo? E, per chi vuole dire «kafkiano», anche lì senz’affaticarsi, c’è quindi un’edizione illustrata della “Metamorfosi”?

Mi è tornato in mente ieri, quando un amico mi ha mandato un servizio della Npr – la Radio Tre degli americani – in cui s’intervista il tenutario d’una startup di Cambridge (la Cambridge vicino Boston, no quella inglese) che usa l’intelligenza artificiale per semplificare il troppo complicato lessico di “Frankenstein” e “Moby Dick” e “Huckleberry Finn”. Ma quello di Mark Twain non è già un libro per bambini? Ha delle frasi troppo lunghe, spiega il tizio della startup, i giovani lettori si distraggono, non capiscono, si affaticano, bisogna dargli «i contenuti per cui sono pronti», fornir loro un ponte per raggiungere l’opera.

Certo, lo fa l’intelligenza artificiale, non sono più posti di lavoro com’erano negli anni Settanta quando qualcuno aveva dovuto pensare a come adattare George Orwell perché potessi leggerlo io, ma per il resto non mi pare ci sia da scandalizzarsi, ho detto a me stessa, determinata a non scrivere il duemillesimo pezzo sui giovani d’oggi più scemi di quanto siano mai stati i giovani di ogni ieri.

Poi mi sono resa conto che la conduttrice della National Public Radio e il tizio della startup parlavano di universitari, non di bambini di otto anni. L’altro giorno ho visto su un social una tizia che si lamentava d’un articolo su qualcuno che si era laureato in anticipo: lei era iscritta all’università da tre anni e aveva dato un solo esame e aveva diritto a non sentirsi inferiore (hanno un sacco di diritti, questi ciucci moderni).

Ho scorso le risposte per capire a cosa fosse iscritta, e alla fine era Scienze Politiche, la facoltà che ai miei tempi era il rifugio dei somari: se eri abbastanza benestante da non mandare tuo figlio diciottenne a lavorare, ma quello era troppo scemo per fare un’università vera, lo iscrivevi a Scienze Politiche. Chissà che testi semplificati può elaborare l’intelligenza artificiale per chi dà un esame di Scienze Politiche ogni tre anni.

Quarant’anni fa, poiché avevo persino meno voglia di studiare di chi faceva Scienze Politiche, rifiutai d’iscrivermi al liceo classico. Al linguistico, l’ultimo anno, se riuscivi a schivare gli opposti sentimentalismi di Jane Austen e di Emily Brontë (scusa, Jane, lo so che tu avevi un certo qual senso dell’umore e quell’altra manco per sbaglio, ma non è colpa mia se le vostre lettrici convergono in scemenza: sarà l’emotività di questo secolo, sarà che ormai fanno tutte il linguistico), se riuscivi a superare le correnti gravitazionali e Virginia Woolf, allora in premio arrivava Joyce, allora potevi leggere il monologo di Molly Bloom e capire cosa si può fare con le parole quando si ha un qualche talento.

Ora continuo a pensare a quel monologo riscritto da un’intelligenza artificiale che segua le regolette del bello scrivere e del farsi capire dal lettore: e mi chiese se volessi dire, due punti, aperte virgolette, sì, virgola, mio fior di montagna, chiuse virgolette – stavo già pensando se fosse il caso di fare appello alla corte dei diritti umani per salvare gli scolari da quel Joyce riordinato come Guernica in quella vignetta, ma poi mi sono resa conto che, quando la bacia, Molly pensa «beh, lui vale un altro», ed è praticamente stupro, e quindi probabilmente nelle scuole non la fanno più leggere, quell’apologia di stupro perdipiù senza virgole.

(L’«as well him as another» che pensa Molly sicuramente non corrisponde al consenso entusiasta che in periodo MeToo si diceva fosse indispensabile, e con l’obbligo del quale non sarebbero esistiti nove decimi delle vite sessuali del Novecento; mica solo quella di Molly Bloom, quelle di tutta una popolazione femminile che ha sempre organizzato lo sfilamento delle proprie mutande secondo il principio «faccio prima a dargliela che a discutere». Mi è tornato in mente ieri, leggendo la lettera di Jeff Bezos, che ha detto al capo delle pagine di opinione del Washington Post di restare solo se il nuovo indirizzo voluto dall’editore incontrava il suo «hell, yeah!»: non sarà che questa cosa del consenso entusiasta ci ha preso la mano?).

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Sono giorni che su Twitter, o come si chiama ora, gira un video in cui, in un qualche evento pubblico, Umberto Galimberti dice: «La scuola elementare sembra che sia diventata una clinica psichiatrica: son tutti discalculici, disgrafici, dislessici». Galimberti non lo sa, ma sta citando la mia battuta preferita della mia serie televisiva preferita.

Si chiamava “Studio 60 on the Sunset Strip”, andò in onda per una sola stagione tra il 2006 e il 2007, ed era ambientata dietro le quinte d’un varietà. Una delle puntate aveva il problema d’un comico che aveva fatto una battuta che forse era copiata. La battuta, che chiunque sia stato a cena con me negli ultimi diciannove anni mi ha sentito citare, era: «Oggigiorno a scuola tutti i bambini hanno qualche diagnosi: dislessia, iperattività, disturbo dell’attenzione. Ai miei tempi eri solo stupido».

Poiché la frase fatta preferita di questo secolo è «non bisogna giudicare», facciamo finta che nessuno più sia stupido così come facciamo finta che ognuno sia bello a modo suo (nessuno è ancora riuscito a spiegarmi, se non esiste la bruttezza, cosa ce ne facciamo della bellezza, e come la riconosciamo – ma non divaghiamo).

Perdipiù, abbiamo due evidenti migliorie della società, rispetto al 2006: i social network, e centinaia di migliaia di psicologi in più da far lavorare. Il risultato è che, mentre quei secondi di televisione erano potuti andare in onda senza interrogazioni parlamentari, Galimberti che dice «Ai tempi miei non c’erano tutte ’ste condizioni: c’era uno che era più bravo e quell’altro un po’ meno bravo che poi si esercitava e diventava bravo» viene processato per direttissima dall’internet che, tra le molte migliorie di questo secolo, ha abbandonato il diritto allo studio optando invece per quello al titolo di studio.

Guai a dire, come fa Galimberti, che i genitori patologizzano i figli perché così quelli verranno senz’altro promossi (appunto: non vogliono studiare, vogliono il titolo di studio); guai a pensare, come faccio io, che al meccanismo contribuisce non poco anche il bisogno di far lavorare gli psicologi. Vongola75 non pensa affatto che l’università non sia per tutti e il PhD di cittadinanza non sia una buona idea, ma anzi ha pronta la storia di come suo fratello dislessico, in tempi meno fitti di diagnosi, venisse considerato scemo.

Ora, io non vorrei attirarmi i detrattori di Galimberti che poi mi percuotono coi loro diplomi incorniciati ottenuti senza saper fare le addizioni a due cifre, coi quiz a crocette e la certificazione di discalculia, ma: se non riteniamo scemo uno che non sa leggere, di grazia, come lo dobbiamo ritenere? Poi certo, lo chiamiamo dislessico, perché siamo personcine beneducate e non diciamo «scemo» in faccia allo scemo, ma ecco, come dire: trattasi di quella lodevole ipocrisia che va sotto il nome di buone maniere, non è che non sappiamo che è scemo. E invece no: Galimberti brutto e cattivo, e i liceali che non sanno leggere geni incompresi.

E quindi, in quest’epoca di dottorandi che hanno le competenze lessicali che nel Novecento avevamo intorno agli otto anni, è giusto che le aziende sminuzzino la letteratura in bocconcini predigeriti, in modo che mai nessuno debba subire il trauma di rendersi conto che è troppo scemo per leggere Kafka, che gli verrà fornito in cinque comode pagine col disegno d’uno scarafaggione e quattro battute in romanesco. Cinque pagine la lettura delle quali varrà come corso specialistico sulla letteratura ebraica, ma pure su quella tedesca, ma pure su quella dell’Europa dell’Est. Cosa potrà mai andar storto.

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