Benché abbia una forte capacità innovativa, l’Europa è in ritardo rispetto a Usa e Cina in campo tecnologico. Perché investe poco sulle prime fasi di sviluppo delle idee. Per i progetti ad alto rischio e lunga gestazione è cruciale il sostegno pubblico.
In cerca di un “giardiniere paziente”
Immaginate di piantare un seme, un piccolo granello pieno di potenziale. Quel seme ha bisogno di cure, di acqua, di un terreno fertile. Si può fare un parallelo tra la ricerca e quel seme. Nel modello attuale di sostegno all’innovazione, in Europa e in Italia, accade qualcosa di paradossale: le risorse vengono destinate non al seme, ma all’albero già adulto, nella convinzione che sia più utile sostenere ciò che è vicino alla piena fioritura. Questo approccio, pur apparentemente razionale, ignora un principio fondamentale dell’economia dell’innovazione: per avere molti alberi rigogliosi domani, bisogna investire soprattutto nei semi oggi.
L’economia dell’innovazione insegna che i primi stadi della ricerca (nella scala che va da 1 a 9, sono quelli che corrispondono ai livelli di maturità tecnologica/Trl 1–4) producono conoscenze che sono un bene pubblico: non escludibili e non rivali, dunque utili per tutta la società. In questa fase, i ritorni privati degli investimenti sono molto bassi rispetto ai benefici collettivi, il che disincentiva il coinvolgimento del capitale privato. È qui che dovrebbe intervenire lo stato, assumendo il ruolo di “giardiniere paziente”, capace di nutrire quelle idee che, pur rischiose e lontane dal mercato, possiedono il potenziale per trasformarsi in innovazioni dirompenti.
Il modello attuale
Il modello attuale, però, ribalta questa logica. Gran parte dei fondi pubblici viene concentrata sui Trl alti (6–9), dove i rischi sono minori e le prospettive di ritorno economico più evidenti. La scelta, dettata spesso dall’influenza di modelli privati come il venture capital, ignora il fatto che, nei Trl alti, il capitale privato è già pronto a intervenire. Appare un paradosso che un paese come gli Usa adotti un modello di finanziamento della ricerca meno orientato al mercato (tabella 1).
La reazione tipica di chi si occupa di venture capital di fronte a progetti lontani dal mercato è di scetticismo, se non di totale disinteresse. Per i venture capitalist, il focus è infatti sulla scalabilità e sulla rapidità di ritorno sull’investimento, due caratteristiche quasi del tutto assenti nei progetti che si trovano ancora a livello di idea o prototipo iniziale. Questo porta spesso a una risposta standard: “Tornate quando avrete un prodotto minimo funzionante o una validazione di mercato”. Questo atteggiamento, sebbene comprensibile dal punto di vista economico, accentua la “valle della morte” che molti progetti innovativi incontrano, lasciando i Trl bassi quasi esclusivamente dipendenti dai fondi pubblici per sopravvivere e svilupparsi. Anziché colmare i fallimenti del mercato, le politiche pubbliche finiscono per sovrapporsi agli investimenti privati, creando inefficienze e distorcendo le priorità del sistema.
L’errore è particolarmente evidente nel settore delle tecnologie pulite, dove l’Europa è leader mondiale, insieme alla Cina, per numero di brevetti. Questi semi di innovazione, che potrebbero rivoluzionare il modo in cui produciamo e consumiamo energia, spesso non superano la fase iniziale di sviluppo per mancanza di fondi. Anche in Italia, iniziative promettenti, nate da ricerche avanzate rimangono intrappolate nella “valle della morte”, incapaci di attirare i capitali necessari per evolvere.
Perché rovesciare il modello
Non mancano le ragioni economiche per un netto cambiamento di direzione. In primo luogo, nei primi stadi della ricerca, gli spillover—cioè i benefici indiretti che si propagano ad altri settori e attori—sono enormi. Ogni euro investito in ricerca di base genera conoscenze che alimentano l’intero sistema economico, dai brevetti accademici alle applicazioni industriali. I benefici si riducono man mano che il progetto si avvicina alla commercializzazione, dove i ritorni diventano prevalentemente privati.
Secondo: nei Trl alti, il capitale privato è già incentivato a investire perché il rischio è più basso e i ritorni sono più immediati. Nei Trl bassi, invece, l’incertezza e i lunghi tempi di sviluppo rendono i progetti poco appetibili per il mercato. Questo crea un fallimento sistemico che solo il settore pubblico può risolvere.
In terzo luogo, concentrando i fondi pubblici nei Trl alti, si rischia di “crowd out” il capitale privato, ossia di sostituirlo anziché integrarlo. Questo non solo genera inefficienze, ma sottrae risorse che potrebbero essere usate per colmare il gap nei Trl bassi.
Infine, investire nei Trl bassi significa piantare le basi per le innovazioni di domani, quelle capaci di affrontare le sfide globali come il cambiamento climatico, la transizione energetica e la digitalizzazione. Le tecnologie che domineranno il mercato tra vent’anni sono oggi solo idee embrionali: trascurarle equivale a privarsi di opportunità strategiche.
Una nuova direzione per le politiche pubbliche
Un modello di finanziamento più orientato ai Trl bassi potrebbe rivelarsi cruciale per colmare il divario dell’Europa rispetto a Usa e Cina, specialmente in ambiti strategici come l’intelligenza artificiale, la biotecnologia e le tecnologie per la transizione energetica. L’Europa ha già dimostrato una forte capacità innovativa in settori come le energie rinnovabili e l’ingegneria avanzata, ma spesso le idee rivoluzionarie faticano a trasformarsi in soluzioni di mercato a causa di una carenza di investimenti nelle prime fasi di sviluppo. Incrementare il supporto pubblico ai progetti ad alto rischio e lunga gestazione potrebbe non solo accelerare la competitività europea, ma anche rafforzare la sua autonomia tecnologica in settori chiave. Adottare queste strategie permetterebbe di trasformare il potenziale scientifico europeo in innovazioni concrete, evitando che startup e ricercatori debbano cercare capitali all’estero per scalare le proprie soluzioni. Questo approccio potrebbe rappresentare la chiave per superare il cosiddetto “middle technology trap” e posizionare l’Europa come leader globale nelle tecnologie emergenti.
Strumenti come il public procurement for innovation (Ppi), già sperimentati con successo negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei, possono generare una domanda iniziale strategica, stimolando la crescita di tecnologie emergenti.
Il Ppi è una leva di politica economica attraverso cui il settore pubblico sfrutta il proprio potere d’acquisto per incentivare l’innovazione. In concreto, le istituzioni pubbliche acquistano prodotti, servizi o soluzioni innovative non ancora disponibili su larga scala, riducendo il rischio per le imprese e favorendo lo sviluppo di nuove tecnologie. L’approccio non solo colma il divario tra ricerca e mercato, ma accelera anche l’adozione di soluzioni all’avanguardia in settori strategici.
Programmi mirati al trasferimento tecnologico e al supporto delle startup deep tech possono colmare il divario tra ricerca e mercato. Il seme, se nutrito con cura, diventa un albero che produce frutti per generazioni.
È tempo che le politiche dell’innovazione smettano di rincorrere il raccolto immediato e tornino a investire nei semi del nostro futuro.
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