Investire sulla Difesa aiuta lo sviluppo

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difficile da pignorare

 


Il risultato delle recenti elezioni tedesche fa nascere qualche speranza: l’eccezionale partecipazione al voto mostra innanzitutto come nei momenti di difficoltà lo strumento democratico sia ancora quello decisivo per costruire il futuro. Entrando poi nel merito, il risultato elettorale, al di là dalle difficoltà di formare un nuovo governo, manifesta la chiara intenzione dei tedeschi di legare strettamente le loro sorti a quelle dell’Unione Europea. Se si aggiunge la vivace reazione del presidente francese Macron alle pretese economiche nei confronti dell’Ucraina di Trump, qualche barlume di ottimismo può illuminare il cuore degli europei. Finalmente abbiamo preso coscienza che l’Europa deve reagire alla nuova travolgente realtà nei rapporti internazionali, e deve farlo rapidamente.

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   La prima emergenza è la difesa, in un frangente in cui la probabile fine della guerra in Ucraina potrebbe costringere il presidente Putin a cercare altri fronti per mantenere il diversivo della politica estera utilizzata a frenare il dissenso interno. L’Europa, se vuole evitare di essere coinvolta in una guerra, non ha altra scelta che dotarsi di più efficaci strumenti di dissuasione strategica preventiva. In realtà, quella di un esercito europeo è una questione su cui si discute da tempo, ma finora senza risultato. In un simile quadro, sia che si riesca a raggiungere l’obiettivo in tempi brevi o in tempi lunghi, sia che ognuno debba provvedere per conto proprio, gli investimenti per la difesa sono destinati ad aumentare significativamente.

   Anche senza arrivare al cinque per cento del Pil, come vorrebbero gli americani, il solo fermarsi al tre per cento significherebbe passare dagli attuali 30 a circa 70 miliardi. Però difesa non vuole dire solo armi: significa anche dotarsi degli indispensabili strumenti tecnologici per l’informatizzazione, la modernizzazione e la competitività del sistema industriale. Si devono rendere più sicure una serie di infrastrutture strategiche: porti, aeroporti, linee ferroviarie, strade, centrali elettriche e relative linee di dispacciamento. Il tutto pone un serio problema di costi.

   Ma, come ci insegna la storia, le spese per difesa e sicurezza durante i conflitti si trasformano in potenti acceleratori dello sviluppo, grazie al fatto che rendono disponibili alle attività civili gli immani progressi tecnologici che si realizzano nel periodi bellici. Se in una prima fase sarà dunque indispensabile qualche sacrificio per avviare un simile processo, successivamente potremmo godere dei risultati di un poderoso kickoff tecnologico, che trasformerebbe anche il nostro paese in un luogo magico dove investire.

   Con un caveat, quello delle risorse. È probabilmente giunta l’epoca di non guardare troppo per il sottile: tagliare gli sprechi e utilizzare anche l’indebitamento. Ma un rischio va assolutamente evitato, quello di essere affascinati dalla “sirena” delle criptovalute. Le cripto sono una sorta di ectoplasma, che ciascuno usa come gli viene più comodo, ma che non trovano una unanime definizione a livello mondiale, né, tantomeno, la medesima regolamentazione. Ciò significa che chi le crea, e soprattutto chi le utilizza, può giocare indiscriminatamente su due tavoli: quello del loro valore e quello dei pagamenti.

   Gli Usa hanno deciso di volerne divenire il leader mondiale. È ragionevole presumere che potranno essere utilizzate per pagare i propri creditori, ivi compresi i fornitori di armamenti. Ma siccome il valore delle cripto è assai volatile e può dipendere anche solo da un tweet, chi le governa riuscirà a moltiplicarne il valore quando deve pagare e a deprimerlo quando devono pagare gli altri. Giocare con i numeri produrrebbe effetti distruttivi sull’equilibrio della compartecipazione a spese comuni, ad esempio, nel caso delle alleanze. Forse sarebbe necessario da parte europea mettere anticipatamente in chiaro la questione e non giocare ancora, come sembra ci si stia abituando, di rimessa nei confronti delle provocazioni altrui.

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