Ho amato l’America. L’ho amata già a sette anni, inseguendo le jeep dei soldati per le caramelle, le “candies”. L’ho amata quando iniziai a capire che nella parte del mondo in cui vivevo si costruiva il sistema di libertà che dura tuttora e si edificava una condizione di benessere dopo i disastri della guerra e la dittatura fascista.
Ho amato la letteratura americana leggendo Melville, Mark Twain, Hemingway, Dos Passos, Faulkner, Fitzgerald, Jack London e Bukowski. Sono stato affascinato dalla musica e dalla cinematografia e ho ammirato le innovazioni industriali e tecnologiche. Sono stato incantato da New York, Chicago, San Francisco e dalla architettura orizzontale americana.
L’ho considerata la terra della speranza, quella che rendeva concreto il sogno del riscatto di tanta gente proveniente da ogni parte del mondo a formare uno straordinario melting pot.
Ho amato quel Paese pur senza ritenerlo un modello assoluto e restando orgoglioso della cultura e delle radici europee e italiane. Ho mantenuto gratitudine per gli interventi in Europa nel 1917 e poi nel 1942, quando gli americani contribuirono in modo determinante a cancellare il dominio nazista dall’intero continente.
Sentivo vicina l’America nell’epica di casa, per i miei quattro nonni emigrati in quel Paese, a contribuire con il loro lavoro al suo sviluppo e a trarre i primi mezzi per una piccola spinta alla crescita familiare.
Come sottosegretario al Lavoro a Washington ho partecipato allo scambio del Trattato di sicurezza sociale tra i due Paesi, dedicando con orgoglio quella cerimonia proprio alla memoria dei nonni.
Ho continuato ad apprezzare quell’America anche quando da democristiano manifestavo contro la guerra in Vietnam o denunciavo i suoi interventi in Cile e in altre parti del mondo per porre fine ad esperienze ad essa invise.
L’alleanza con gli Stati Uniti, pur avendo dovuto cedere una parte della nostra sovranità – nella realtà al di là della “cortina di ferro”, della sovranità di ciascuno Stato non rimase traccia -, era tra Paesi liberi e consentiva di mettere in atto una politica estera autonoma nel settore energetico e nel rapporto con la realtà mediorientale.
Accolsi con soddisfazione la scelta dei comunisti italiani di sentirsi più protetti all’interno della NATO piuttosto che del Patto di Varsavia.
Per qualche tempo fui anch’io convinto che la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti avessero segnato la “fine della storia” come sostenuto da Fukuyama, conferendo all’America in modo ancor più evidente di prima il ruolo di guida e di dominio unilaterale. Sembrò allora che il sistema liberaldemocratico avesse ottenuto una vittoria definitiva. Che avesse avuto ragione Churchill nel sostenere che “la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.
Nella mia lunga vita ho potuto percorrere tre grandi tornanti della storia, ho vissuto tre svolte importanti. Ancora in modo inconsapevole quella della tragica fine del dominio nazifascista, poi l’affermazione della democrazia e dello sviluppo economico e infine il crollo dei regimi comunisti.
Per ottant’anni in questa parte del mondo ho goduto della pace, garantita anche dalle istituzioni internazionali di mediazione, ho fatto parte di organismi europei dando anch’io un piccolo contributo alla difficile costruzione dell’unità del continente.
A lungo, come tanti, ho guardato distratto a ciò che capitava altrove, al dramma dei conflitti, della povertà, delle discriminazioni. Tutti ci siamo illusi di avere il diritto ad utilizzare una parte considerevole delle risorse prodotte nel mondo per ottenere una elevata qualità della vita, ritenendo tutto ciò scontato e permanente. Abbiamo delegato la nostra difesa agli Stati Uniti d’America, parendoci del resto che nessuno potesse minacciarci.
Poi abbiamo scoperto che un autocrate con la violenza e la guerra sta tentando di sovvertire la realtà per ricreare la Grande Russia a danno delle nazioni confinanti.
Ora ho il timore di assistere ad un’ulteriore svolta della storia, una svolta imprevedibile e pericolosa.
Quell’America che ho amato e che vorrei continuare ad amare, è finita nelle mani di un gruppo di irresponsabili orientati quasi esclusivamente dalle logiche della potenza, della ricchezza e degli affari. È guidata da un imprevedibile, pericoloso personaggio che dimostra l’immaturità e la bizzarria di un adolescente problematico.
Gaza trasformata attraverso l’IA dalla Casa Bianca in un resort potrebbe sembrare uno spot degli avversari di Trump e di Musk, una irrisione, uno sberleffo per la loro pacchiana megalomania, lo svelamento dell’inqualificabile tentazione di comprare e controllare il mondo intero, il sogno perverso di un palazzinaro e di uno psicotico riccastro, il remake di Il grande dittatore, il film nel quale Chaplin fa girare come una trottola sull’indice il mappamondo.
Non è nulla di tutto ciò.
Quel video è purtroppo l’appagamento, finora virtuale, dei desideri di chi regge la più grande potenza del mondo, la possibile anticipazione di una realtà distopica. È la promessa di offrire a una parte dell’America, a quella che in Trump si riconosce, la prospettiva di un resort lussuoso, cacciando due milioni di palestinesi o riducendoli a servire i drink a Netanyahu e Trump e il pane con l’hummus a Musk.
È tragicamente ignobile e deve sollecitare l’indignazione di tutti.
L’America spero rimanga quel grande Paese che ho amato e che abbia ancora gli anticorpi per bloccare il percorso nefasto del suo presidente. Non vorrei sbagliarmi tuttavia, non vorrei fare come coloro che negli anni Trenta del secolo scorso ritenevano che la Germania di Goethe, di Beethoven e di Kant non potesse diventare il Terzo Reich di Hitler.
Rimane la speranza o la profezia che furono di Hegel e di Marx: se la storia si ripete, si ripete sotto forma di farsa.
La oscena baracconata della statua d’oro di Trump sulle rovine di Gaza potrebbe finire nel deposito di una casa di produzione cinematografica.
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