Mentre Trump firma decreti, mentre Netanyahu sorride, mentre gli speculatori preparano i loro contratti Gaza è ridotta a un cumulo di macerie. Ma non sparirà
C’è un uomo che gioca a fare Dio.
Lo fa con la rozza tracotanza di chi ha sempre trattato la Storia come un affare, la carne degli uomini come merce, la sofferenza come un costo marginale.
Donald Trump, il mercante di cemento, ha parlato; e la sua parola è una condanna: Gaza verrà rasa al suolo, la sua gente dispersa, la sua memoria riscritta con i caratteri dorati di una brochure turistica.
Non è la prima volta che un impero si illude di cancellare un popolo. Hanno creduto di riuscirci i Romani, che seminarono sale sulle rovine di Cartagine; l’hanno creduto i conquistadores che bruciarono i codici maya; l’hanno creduto i nazisti nei ghetti e nei campi di concentramento, e ogni volta il tempo ha smentito il loro sogno di purezza.
Ma oggi il metodo è più sottile: non si sterminano soltanto i corpi, si rimuovono le esistenze.
Si deportano interi popoli senza più bisogno di carri bestiame, si trasformano le macerie in hotel, la storia in un catalogo per investitori.
Trump chiama Gaza «un posto molto sfortunato», con la neutralità glaciale di chi guarda il dolore da un attico di Manhattan. Non dice che è stata bombardata, affamata, stuprata e murata viva. Non dice che ogni sua pietra porta il segno di una guerra che non è iniziata oggi e che non finirà domani. Dice solo che è invivibile, e che quindi è giusto spazzarla via, con un’operazione degna di un immobiliarista: radere al suolo, trasferire la popolazione, ricostruire.
Gaza deve morire per diventare la nuova Riviera extralusso del Medio Oriente.
E Netanyahu annuisce, applaude, stringe le mani callose del suo alleato, con l’avidità di chi ha sempre saputo che sarebbe arrivato questo momento. «Bisogna prestare attenzione alle idee fuori dai parametri tradizionali», dice, mentre l’idea più vecchia del mondo prende forma sotto i riflettori: espropriare, cancellare, sostituire.
Ma Gaza non è solo un cumulo di macerie. Gaza è la sua gente.
È il vecchio che si rifiuta di lasciare la sua casa sventrata, seduto su ciò che resta della porta. Le mani nodose poggiate sulle ginocchia, lo sguardo perso oltre la strada in rovina, là dove un tempo c’era vita.
È la madre che ogni mattina piega con cura i vestiti del figlio morto sotto le bombe, perché conservano ancora il suo odore, il sudore di corse improvvise, il calore di abbracci spezzati.
È il bambino che, nel silenzio irreale del dopobomba, raccoglie un pezzo di pane da terra e lo mangia senza soffiarci sopra la polvere. Il volto sporco, il corpo magro, ma gli occhi non tremano. Non ha mai conosciuto la quiete, non ha mai visto una notte senza paura. Eppure cammina scalzo tra i detriti, stringendo sotto il braccio un pallone bucato. Perché un bambino gioca, anche quando il mondo gli cade addosso.
È la donna inginocchiata tra le macerie della sua casa, che cerca tra le pietre una fotografia, un pezzo di carta, una lettera che nessuno leggerà mai più. Scava con le dita, le unghie spezzate, i palmi sanguinanti, finché non trova un braccialetto, un frammento di specchio. E in quell’immagine crepata rivede il passato, quello che non tornerà mai più.
È l’uomo che cammina lungo il mare, i piedi nudi nella schiuma sporca. Guarda l’orizzonte come se oltre le onde ci fosse un altrove possibile. Ogni notte ascolta la risacca e immagina di partire. Ma poi resta. Perché partire sarebbe solo un altro modo di morire.
Gaza è questo. Gaza è il suo popolo. Gaza è chi resiste, chi piange senza testimoni, chi si sveglia ogni mattina senza sapere se vedrà la sera.
Dove andranno queste persone? Trump dice: «Uno, due, sei, dieci, dodici posti» Un elenco vuoto, come se un popolo fosse una cifra da distribuire su un foglio Excel. Ci sono terre «buone, fresche, bellissime» dove potranno essere spostati, come bestiame in cerca di nuovi pascoli.
Ma Gaza non è solo un territorio, è una ferita che squarcia il cuore del mondo.
Eppure, ancora una volta, il mondo osserva e tace. L’Europa, spettatrice impassibile, prende appunti sulla diplomazia del nulla. I leader occidentali sospirano, dichiarano “preoccupazione”, ma poi continuano a firmare assegni per la guerra, a vendere armi, a fare affari con gli assassini. Nei palazzi del potere si gioca con le parole, si riformulano i crimini per renderli presentabili, si discute di “prospettive geopolitiche” mentre nei vicoli di Gaza il sangue impasta la sabbia.
E così, mentre le ruspe americane si preparano a livellare il dolore, mentre si disegnano nuovi confini sulle mappe senza chiedere nulla a chi quei confini li vive sulla pelle, la verità resta sospesa nell’aria, scomoda come un cadavere che non si può seppellire.
Ma Gaza non sparirà.
Non basteranno i bulldozer, non basteranno le leggi, non basteranno le menzogne. Perché Gaza esiste nel grido di chi rifiuta di essere spostato, nelle mani che scavano sotto le macerie, negli occhi di chi continua a guardare il cielo anche quando non c’è più niente da aspettare. Gaza è nella memoria. E la memoria non si deporta.
Mentre Trump firma decreti, mentre Netanyahu sorride, mentre gli speculatori preparano i loro contratti, un bambino cammina sulla spiaggia di Gaza. I suoi piedi affondano nella sabbia umida, Il bambino si china, raccoglie un ramo sbiancato dal sale. Lo usa per disegnare sulla sabbia. Forse una casa, forse un volto, forse il nome di qualcuno che non c’è più.
E in quel gesto c’è più Storia di quanta ne possano scrivere mille potenti con le loro mani ripulite dal sangue e il loro cuore di cenere.
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