Il senso perduto della «guerra», e del diritto

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Tra le reazioni all’incontro di venerdì alla Casa bianca, colpisce quella di Stathis Kalyvas, pubblicata “a caldo” su X: «Lo scambio Trump-Zelensky è la migliore illustrazione moderna del dialogo tra i Melii e gli Ateniesi di Tucidide. Ma non è sempre stato così. Dopo la seconda guerra mondiale il mondo aveva fatto grandi passi avanti. All’improvviso tutto è crollato». Kalyvas è greco, ma insegna nel Regno Unito, dove ricopre una prestigiosa cattedra di scienza politica a Oxford. La sua osservazione non ha soltanto l’autorevolezza che viene da una vita trascorsa a studiare i conflitti, ma anche la profondità di prospettiva storica che è frutto di una solida cultura classica.

Una delle cose che suscitano maggiore sconcerto, seguendo le reazioni all’umiliazione subita da Zelensky nel corso del suo dialogo con il presidente statunitene Trump e il suo vice Vance, è proprio l’assoluta mancanza di prospettiva storica di buona parte dei leader europei e statunitensi che si sono affrettati a consegnare ai social la propria indignazione, e solidarietà con il presidente ucraino, utilizzando lo stesso linguaggio legnoso con cui avrebbero potuto commentare una sconfitta della squadra del cuore nella finale di un torneo internazionale, o i problemi di salute di una celebrità televisiva.

A forza di abusare di termini come «guerra» (al debito pubblico, al cancro, alla disinformazione) se ne perde il senso materiale e morale, che invece è ben presente a tanti ucraini che ne fanno esperienza. A contatto con il mondo reale, con le cronache di un conflitto sanguinoso che dura da anni, le espressioni bellicose suonano vuote come le invocazioni di regole e principi del diritto internazionale. Scorrendo la lunga lista di capi di stato e di governo, di intellettuali e di opinionisti che si sono indignati per il trattamento ricevuto da Zelensky, si fatica a trovarne qualcuno che abbia espresso sentimenti simili mentre Israele faceva a pezzi regole e principi massacrando donne e bambini in Palestina. Gli inviti a «scendere in piazza» in difesa dei «nostri valori» stridono in modo insopportabile dopo Gaza. Che pochi si siano posti il problema di questo «doppio standard» giuridico e morale nelle classi dirigenti europee e occidentali è un sintomo che non lascia presagire nulla di buono per il futuro.

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La messa in scena di Washington – nella quale Zelensky ha saputo comunque dar prova di dignità pari a quella degli ambasciatori di Melo nel dialogo con gli emissari di Atene, il potere imperiale egemone – sembra sia stata un brusco risveglio per una classe dirigente che si è formata all’ombra della fine della guerra fredda, imbevuta di una visione della società e della storia che rimuoveva completamente il conflitto dalla politica, e sostituiva l’amministrazione delle cose al governo delle persone. Eppure non è la prima volta che il volto brutale della forza («per legge di natura chi è più forte comanda», dicono gli ateniesi ai melii) si è mostrato negli ultimi decenni. L’architettura faticosamente messa in piedi dopo la seconda guerra mondiale, come ha ricordato Kalyvas, era motivata dall’aspirazione di sostituire il diritto alla forza. Gli aspetti migliori del processo di integrazione europea erano animati dalla stessa volontà, rafforzata dalla determinazione di chi era sopravvissuto a due guerre mondiali. Dopo il 2001 questo spirito si affievolisce, e con esso si perde la consapevolezza che, come affermava Kant, un’ingiustizia ovunque nel mondo è un torto per chiunque.

Oggi ci troviamo in una situazione in cui Tucidide appare più rilevante dei discorsi motivazionali di manager e banchieri prestati alla politica. Chi è debole non può permettersi di buttare i dadi più di una volta, dicono gli emissari di Atene ai melii, e come non pensare ai richiami alle “carte” fatti da Trump discutendo con Zelensky?

Se non hai più carte da giocare non ha senso affidarsi alla speranza (un altro motivo tucidideo echeggiato alla Casa bianca). C’è tuttavia un aspetto della situazione attuale che si distingue in modo significativo dal dialogo tra gli ateniesi e i melii come lo ricostruisce Tucidide: la pubblicità. Gli ambasciatori di Atene si incontrano soltanto con i magistrati di Melo. Proprio questa segretezza consente a entrambi di esporre le proprie ragioni in modo franco e lascia spazio alla brutalità del linguaggio degli ateniesi. La conversazione tra Zelensky, Trump e Vance era invece pensata per avere un impatto mediatico, a casa e fuori. Questa è forse la chiave di lettura su cui dovremmo concentrarci riflettendo su quanto è accaduto venerdì a Washington.



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