«Non c’è niente per nessuno, neanche per Dio»

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REGGIO CALABRIA L’uscita dal carcere e, nonostante i domiciliari, l’obiettivo di riconquistare la capacità di influenza nei territori storicamente sotto l’egemonia della cosca Barreca. Nel processo “Barracuda” contro il clan reggino, Filippo Barreca era stato condannato all’ergastolo. Fratello di Santo e Giuseppe Barreca, tutti e tre erano considerati al vertice del clan con interessi nel territorio di Pellaro. In seguito all’arresto dei tre fratelli Barreca e ai lunghi periodi di carcerazione che ne erano seguiti, la cosca si era disgregata, ma una volta rientrato sul territorio, nonostante la sottoposizione alla detenzione domiciliare ha instaurato una rete di relazioni allo scopo di riprendere il controllo dell’ambito territoriale che era stato di riferimento della sua famiglia. A ricostruire le mosse di Barreca sono i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria nelle pagine delle motivazioni della sentenza del maxi processo “Epicentro”, terminato con 44 condanne. Alla sbarra gli esponenti delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta di Reggio Calabria. Il processo, che nasce dalle tre inchieste “Malefix”, “Metameria” e “Nuovo corso”, ha messo in luce l’egemonia della cosca “De Stefano”, attorno a cui ruotavano le ‘ndrine Tegano, Molinetti, Libri, Condello, Barreca, Rugolino, Ficara, Latella, Zito e Bertuca.

Dalla “disgregazione” del clan alla riconquista di Pellaro

Dopo la “disgregazione” del clan a seguito dell’arresto dei tre fratelli al vertice, per moltissimi anni – scrivono i giudici – la famiglia Barreca non risulta avere operato. Una inattività che termina però appena dopo l’uscita dal carcere di Filippo Barreca, sottoposto al regime degli arresti domiciliari: «una volta rientrato sul territorio, nonostante la sottoposizione alla detenzione domiciliare, ha instaurato una rete di relazioni con soggetti in parte a lui legati da rapporti di parentela, in parte opportunamente, talora tra individui già inseriti in altre organizzazioni, allo scopo di riprendere il controllo dell’ambito territoriale che era stato di riferimento della sua famiglia. Forte di tali relazioni intersoggettive egli, da una parte ha esercitato l’intimidazione mafiosa nell’area di Pellaro, dall’altra è stato riconosciuto dalle altre famiglie di ‘ndrangheta come elemento di vertice di una ‘ndrina pienamente operativa». Barreca torna dunque al vertice un gruppo di persone dedite ad attività criminali, e in particolare le estorsioni, utilizzando «la forza intimidazione derivante, non dal singolo, ma dall’organizzazione». Una circostanza che – secondo i giudici – viene evidenziata quando Filippo Barreca apprende che un imprenditore, gestore di un supermercato a Lazzaro, paga una tangente a Giuseppe Leuzzo, cognato dei Ficara. «Poiché l’esercizio ricade nella sua zona di influenza rivendica per sé l’estorsione, ma Leuzzo non intende dismetterla. Barreca sollecita allora la mediazione degli “arcoti”, i quali intervengono su Leuzzo e lo convincono a cedergli l’estorsione».  

«Non c’è niente per nessuno, neanche per Dio»

E ancora: «Dopo essere stato scarcerato, – evidenziano i giudici – Barreca si era reso conto che le cosche di Croce Valanidi avevano “occupato” il suo territorio e rivendicava ciò che riteneva di sua spettanza per i lavori eseguiti nell’ambito della sua competenza».
«Le cose le devo fare io! Altrimenti non c ‘è niente per nessuno, neanche per Dio”, afferma Barreca nel corso di una conversazione captata, riferendosi alla gestione delle attività estorsive: «egli rivendica – scrivono i giudici – in maniera decisa le proprie buone ragioni nel pretendere il riconoscimento della sua competenza nel territorio di Pellaro». 
Secondo i giudici tutte le estorsioni contestate a Barreca e ai suoi sodali sono accomunate dal medesimo disegno: «quello di assumere nuovamente il controllo del territorio, sfruttando un gruppo organizzato che si era nuovamente formato attorno alla persona di Barreca e che ne sfruttava, per rafforzare la capacità di intimidazione, la pregressa militanza nella ‘ndrangheta, mai cessata a dispetto del lunghissimo periodo di detenzione».

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