Salvare vite è un lavoro. È il gesto forte di un braccio che necessita di forza. Si salvano vite, ma anche corpi dei migranti che attraversano il mare e – se non colano a picco – saranno cittadini, se va bene, sicuramente saranno forza lavoro in Europa.
Di questo e molto altro parla il nuovo spettacolo dei Kepler 452 “A place of safety” firmato da Nicola Borghesi e Enrico Baraldi che ha debuttato all’Arena del Sole di Bologna. Un filo che lo lega al lavoro precedente ovvero il fortunato e acclamato “Il Capitale, il libro che non abbiamo ancora letto” con cui il gruppo bolognese aveva il mondo del lavoro, la vita di una fabbrica, la GKN, anche nel suo momento di crisi, di lotta e occupazione.
Di destini sospesi narra anche “A place of safety” che ha al centro la nave della ong Sea Watch, essa stessa una grande fabbrica di salvataggio come sembra nell’ampia scenografia firmata da Alberto Favretto (c’è anche Dario Salvetti operaio sindacalista della Gkn consulente alla drammaturgia).
Anche qui è dispiegato il metodo dei Kepler: mesi di preparazione, studio, condivisione di un tratto di vita. Come avevano partecipato all’occupazione, qui Baraldi e Borghesi si sono imbarcati per alcune settimane, osservando da esterni ma anche partecipando alle attività a bordo. Sia Sea-Watch che Emergency hanno poi collaborato alla produzione di Emilia Romagna ERT/Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, CCS Teatro stabile dell’innovazione del Friuli Venezia Giulia, nonché i francesi Theatre des 13 vents di Montpellier.
Baraldi e Borghesi hanno raccolto materiale, storie, ascoltato, fatto riprese ma alla fine hanno portato direttamente chi vive quell’esperienza a raccontarla sul palco (sottolineatura teatrale: hanno anche saputo formarli egregiamente per una performance molto intensa). Con Borghesi, sul palco ci sono infatti Flavio Catalano, ex militare della marina, che da giovane era di destra e ora è desk leader per Emergency, aiuta a preparare navi soccorso; c’è Miguel Duarte, fisico e ricercatore portoghese, poi capomissione di Iuventa e ora Sea Watch; c’è Giorgia Linardi, che da giurista ora è portavoce di Sea Watch; c’è Floriana Pati, che ha lasciato il lavoro di infermiera per diventare life support di Emergency; c’è José Ricardo Peña, americano e figlio di migranti messicani, a Houston faceva l’elettricista ma ha capito che aveva più senso farlo a bordo della Sea Watch. Sono tutti strepitosi interpreti delle loro stesse storie, dei loro stessi dubbi e tormenti, di crisi esistenziali, stress e contraddizioni, che è l’altra faccia, spinosa, di un’attività virtuosa, che Borghesi cuce con il suo stesso racconto di testimone e regista alle prese con una realtà nuova, mettendosi in gioco.
Intanto colpisce, a proposito di continuità col Capitale, un tratto comune: tutti sono imbarcati perché insoddisfatti del loro lavoro precedente. Partecipano di un altro spostamento di corpi dentro il capitalismo, quello delle “grandi dimissioni” come le chiama la sociologa Francesca Coin. Cambio di vita e desiderio di trovare un posto che salvi dal disagio di privilegiati. È uno dei molti squarci di crisi che si aprono nella tessitura drammaturgica che è uno degli elementi di forza dello spettacolo: non ci si nasconde dietro nulla. “Forse faccio tutto questo per me stesso?” si chiede Duarte magari “per sentirmi vivo?” come ripetono anche altri con un bel paradosso, per chi le vite le salva: salvare la sua. È l’altro lato del suo piglio sicuro e quasi manageriale che ha nello spiegare ogni mattina il report, nell’illustrare l’organizzazione quasi taylorista delle mansioni, le regole organizzative, le statistiche anche fredde (i motivi del “perché muoiono”).
Ognuno degli operatori racconta, illustra, mostra le sue ferite, i dubbi, le domande. Ne viene fuori un racconto corale, fluido in una composizione delle scene e dei movimenti coreografati da Marta Ciappina e avvolti nel disegno sonoro di Massimo Carozzi una sorta di oratorio civile di grande forza, ma aggirando il rischio di retorica, che anzi Borghesi e Baraldi, scrivendo il testo con le parole di tutti, affrontano e smontano, lasciando affiorare anche le contraddizioni. Siamo all’opposto della levigata epopea del film “Io capitano” di Garrone. Anzi tra le domande sul piatto anche quella che Borghesi subito anticipa: non ci sono in scena i migranti. Il regista spiega la scelta, difficile, che serviva ad evitare che già “porgere il microfono” fosse un dare voce, certo, ma anche un gesto di superiorità. Lo stesso per le storie, che se sono “drammatiche” è meglio secondo il cliché dell’informazione (“Ma allora devo augurami il peggio?” si chiede Borghesi).
“A place of safety” racconta molto, anche nel dettaglio, delle attività di ogni missione e insieme ne fa un controcanto: così José Ricardo Peña, con una verve teatrale davvero unica, lamenta la “rigidità tedesca” della ong a cui raccomanda un ”po’ di caos” e di umanità “latina”: o l’infermiera Floriana Pati che al colmo di una crisi di rigetto per tutto il dolore si sfoga: “Torno in pronto soccorso” a fare l’infermiera qualunque, tanto “le persone che scenderanno da questa nave le ritroverò lì, disperate”. Fino al breve monologo di Borghesi – anche qui come nel Capitale una finestra amletica o da “25^ ora” – che narra come da bambino, riluttante al nuoto ma portato a forza in piscina, stava per affogare e di come in quei momenti chi affoga può essere vittima e carnefice.
Non c’è solo il disinnesco della retorica, ma anche le spie di quel che aveva detto all’inizio Duarte: “C’è bisogno di una visione del mondo” non basta salvare. Cosa accade dopo lo sbarco? L’Europa non è la Sea Watch. Così quando si sentono i Tuxedomoon intonare “Give me the words”, con uno strappo emozionale, dentro uno spettacolo che non indulge a cercare lacrime, si pensa alla necessità di trovare le parole per una nuova visione per l’Europa tutta, e che serve più a chi vuole accogliere che a chi vuole respingere. Non bastano più le parole che abbiamo. Proprio mostrare il lato fragile del bene fa di “A place of safety” un grande spettacolo, perché va oltre il gesto nobile del braccio che tira su un corpo, ma diventa un potente affresco sulle lacerazioni, le crisi interne a una visione di progresso che forse al momento è sospesa, su questo confine del giusto principio di accoglienza e salvataggio, ma quasi incastrata in essa, così come siamo lacerati tra visione progressista (salviamoli, accogliamoli) e una visione di destra (alziamo i muri). “E se stessimo illudendo queste persone? “e ancora “le accogliamo perché ci servono, fanno i lavori che altri non vogliono fare” e da qui Borghesi ci rigetta contro, sottolineandole, queste parole: “Ci servono”, ma se è solo per questo, allora sono più coerenti quelli che respingono.
Ho salvato vite, altre mi sono morte sotto le mani: “Che me ne faccio di questa verità?” si chiede Giorgia Linardi, se non so come assicurare un’esistenza futura dopo lo sbarco, se l’unico posto sicuro sono queste tavole del ponte della Sea Watch. Di legno, un palcoscenico. Da queste tavole, anche grazie a uno spettacolo così, dobbiamo ripensare una visione nuova fuori dalle contrapposizioni radicali. Noi, che applaudiamo convinti ai Kepler e ai membri delle ong sul palco, ma anche tutta l’Europa, dobbiamo avvistare da qui il futuro e salvarlo.
Prossime date: Montpellier, Novembre 2025, Festival biennale del Mediterraneo; Udine, Palamostre 2/12/25, Prato, Metastasio 4-7/12/25.
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