Piccola guida alla scoperta delle città italiane dal carattere art déco

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Quel periodo vivace e straordinario compreso tra le due guerre mondiali aveva dato un’immagine di sé molto precisa, attraverso un gusto, una moda fatta di oggetti di design, abiti, acconciature e persino edifici da abitare. Era il gusto del tempo, chiamato Art Déco o anche stile 1925. Cent’anni fa, esatti. Tanto che Milano celebra con la mostra “Art Déco. Il trionfo della modernità” a Palazzo Reale questo compleanno e in Europa si susseguono appuntamenti celebrativi un po’ ovunque.

Ma per l’Italia l’Art Déco è un momento molto importante: segna i prodromi del Made in Italy inteso come prodotto manifatturiero di grande gusto e altissima qualità. Gio Ponti in effetti vince il Gran Prix all’Exposition internationale des arts décoratifs et industriels modernes di Parigi del 1925 con i suoi vasi realizzati dalla Richard Ginori: le sue donne nude con i capelli a caschetto e dolcemente adagiate su nuvole dorate diventeranno un motivo emblematico dell’epoca, insieme a quei vasi optical prima del tempo, a richiamare forme geometriche punteggiate di oggetti simbolo della storia antica. Un periodo vulcanico. Basti pensare ai centrotavola a tema marino, con pesci d’argento che si tuffano in lapislazzuli blu, adornati di coralli o a quelle parate in ceramica che raccontavano un’Africa a base di luoghi comuni colonialisti. E poi, gli abiti: le sartorie italiane cominciano a emergere per stile e per alta qualità, forse con un unico avversario, la Francia.

Casa Boschi di Stefano. Courtesy of Casa Boschi di Stefano

Dunque, se ci si veste art déco, si apparecchia la tavola art déco e ci si pettina art déco, perché non immaginare una città art déco? Quel gusto speciale prende forma anche nell’architettura, mantenendo quasi sempre quel tocco giocoso e ironico che lo caratterizza. Occorre chiarire subito però un dettaglio: l’art déco non è uno stile. Parola di Valerio Terraroli, storico dell’arte e curatore della mostra milanese, che spiega: «Si parla di qualcosa di molto penetrante per un pubblico ampio. Tutti riconoscono e desiderano l’art déco, ma nessuno lo teorizza. Non solo: l’art déco ha una durata molto breve. Io considero che si consumi tra il 1922 e il 1927, anche se troviamo esempi interessanti fino ai primi anni Trenta. Per queste ragioni si parla di gusto, è una moda molto pervasiva ma di cui poi il pubblico si stanca rapidamente».

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Perché si impone questo gusto? «Il déco è astuto nel produrre oggetti del desiderio che tutti vogliono. La società, subito dopo la Prima guerra mondiale, vuole vivere senza domande. Chi spinge allora per promuovere il déco? L’alta borghesia, che apprezza i movimenti moderni, ma cerca di togliere loro la carica rivoluzionaria che avevano dentro, per timore della rivoluzione, guardando con preoccupazione, naturalmente, a quella bolscevica», continua Terraroli. Che aggiunge: «L’industria manifatturiera italiana, impoverita dal periodo bellico, aveva bisogno di un rilancio e questo fenomeno è un sensazionale motore: Milano è la punta di diamante del rilancio manifatturiero e questo decennio è fondativo per il ruolo del Made in Italy nel mondo».

Gio Ponti, Domitilla Maiolica, Piatto, 1924. Courtesy of Palazzo Reale

La città art déco riesce a imporre alcuni edifici che si integrano nel tessuto urbano per raccontare il fenomeno in forma abitativa o, spesso, in luoghi dell’intrattenimento borghese come i cinema e i teatri. A Milano si impone quel gusto anche nella neonata Stazione Centrale, che per eclettismo racconta il mondo déco, soprattutto nel Padiglione reale, esempio prezioso dell’idea costruttiva e decorativa di un luogo che doveva rappresentare ai viaggiatori la città operosa per eccellenza. Il Padiglione reale insieme alle sale di rappresentanza era uno spazio a uso esclusivo del re, della sua famiglia e del suo seguito durante l’attesa del treno Reale, nel solco di una tradizione che aveva visto le prime tratte ferroviarie collegare le grandi città alle residenze dei regnanti. Siamo nel 1931, ma quel gusto è ancora alla moda e l’architetto Ulisse Stacchini progetta un piccolo gioiello interno all’edificio, il padiglione in questione, coinvolgendo artisti diversi per le decorazioni a bassorilievi e i dipinti, ma anche l’impianto d’illuminazione, squisitamente art déco, insieme a una curiosa via di fuga per il re che in caso di pericolo avrebbe trovato dietro lo specchio del bagno una scala a pioli per abbandonare velocemente la stazione. Il nostro viaggio inizia da questo luogo simbolo della città (con un approfondimento in occasione della mostra milanese), per toccare alcuni esempi del déco architettonico tra Milano, Torino e Roma. Nei prossimi due articoli andremo in Europa e poi negli Stati Uniti.

A Milano si raggiunge corso Venezia per imbattersi in un edificio importante. L’autore è Piero Portaluppi che realizza, tra il 1926 e il 30, il Palazzo della società Buonarroti Carpaccio Giotto in un gusto elegante quanto fantasioso. Siamo al civico 62 di corso Venezia, davanti ai Giardini Pubblici. Proprio lì si incontra l’edificio caratterizzato in maniera inconfondibile da un arco di ampiezza e altezza ragguardevoli, decorato a losanghe, che segna l’incrocio tra il corso e la perpendicolare via Salvini. La facciata su Corso Venezia va guardata con una certa attenzione: se la composizione classica con lesene e riquadrature decora la parte superiore, sono molti gli elementi déco che si affiancano geometricamente coinvolgendo anche la galleria: pilastri d’ordine dorico, cornici e statue.

Courtesy of Fondazione Piero Portaluppi. Foto by Paoletti

Non molto distante da qui si raggiunge via Mozart, sede di un altro luogo fantasiosamente art déco, Palazzo Fidia (per la precisione al 2 di via Melegari). A firmarlo è Aldo Andreani che lo realizza negli anni compresi tra il 1929 e il 1932. Per la storia è forse la massima rappresentazione artistica dell’architetto mantovano: la sorprendente composizione di superfici arretrate e di aggetti, di finestre di ogni foggia immaginabile e di bow-window tondi, di cornici, ghiere e dentellature. E ancora, archetti e archi a vento, nicchie e pensiline, timpani e balaustre, pigne e pinnacoli. Ci si calma un po’ solo verso l’interno, dove l’edificio però diventa concavo. Il tutto, realizzato per lo più in mattoni, disposti a comporre varie tessiture visive. E l’atrio non è da meno, disegnato dallo scalone in marmo curvilineo e imponente. Insomma, una favola, un tuffo nell’immaginario che, al tempo della sua costruzione, veniva descritto come una “sarabanda sfrenata”, “jazz architettonico”, “sonoro ceffone a tutti i bigotti della tradizione”. Per Valerio Terraroli, un esempio art déco per eclettismo tra moderno e antico.

Facendo rotta verso Corso Buenos Aires si raggiunge poi la casa Boschi di Stefano, oggi casa museo con la sua importante collezione di opere d’arte, progettata da Piero Portaluppi in via Jan 15. La posizione angolare della casa diventa motivo decorativo e giocoso per l’architetto, che realizza due ordini di bow window e un balcone, mentre gli interni sono un esempio meravigliosamente conservato del déco (la casa è aperta al pubblico, così come la sua collezione). Tornando verso Porta Venezia si incontra la torre Rasini che in verità, nella parte a mattoni disegnata da Ponti accanto a quella in marmo a firma Lancia, racconta il passaggio dal Déco al successivo stile Novecento. Sempre di Gio Ponti è la casa da lui disegnata per la famiglia in via Randaccio 9: un meraviglioso gioco tra elementi classici e moderni che racconta quel gusto, lo spirito di «esuberante spensieratezza di decoratore» ravvisato da Ferdinando Reggiori e descritto sulle pagine di “Architettura e arti decorative” come il frutto più diretto dell’intenso lavoro svolto per la Richard Ginori dall’architetto. Siamo negli anni tra il 1924 e il 1926 e lo stile Ponti domina la scena!

Casa Boschi di Stefano. Foto by Alberto Lagomaggiore

Torino è un’altra meta interessante per ritrovare esempi architettonici déco. Il cinema Lux nella galleria San Federico merita sicuramente una visita. Progettato dall’architetto Eugenio Corte e dall’ingegner Giovanni Canova, il cinema fu inaugurato il 31 marzo del 1934 con il nome di Cinema Rex: era il più grande e moderno cinematografo di Torino, caratterizzato da una ricca decorazione art-déco sia negli interni, sia in facciata. Rinominato “Dux” durante il fascismo, assunse l’attuale nome “Lux” nel 1945. Il gusto dell’epoca è ben conservato, a cominciare dall’ingresso con un lunotto art déco a incorniciare la porta e due luci laterali a illuminarla.

Altro teatro importante dal punto di vista déco è l’Astra, nel quartiere Campidoglio dove i coniugi Verna misero a disposizione dei terreni per la costruzione di scuole prima e di questo teatro subito dopo. Siamo nel 1928 e a costruire l’Astra – allora con il nome di cinema teatro Savoia – ci pensa l’architetto Contardo Bonicelli, firma del déco torinese. Oggi conserva preziose decorazioni déco all’interno e la facciata, ristrutturata quasi vent’anni fa, è tutelata dalla Soprintendenza. Infine, le Torri Rivella, dal 1929 all’incrocio tra i corsi Regina Margherita, Regio Parco e San Maurizio (noto anche come rondò Rivella). Sono due grandi edifici che raccontano la storia del committente, Francesco Rivella, che voleva trasferirvi il suo atelier di pellicceria, frequentato da un pubblico internazionale, ma anche quella della città. L’architetto Eugenio Vittorio Ballatore di Rosana, nota firma del liberty locale ma anche di pregevoli esempi déco, si pone il problema di incorniciare in modo innovativo l’ingresso ai boulevard ottocenteschi e di inserire i due edifici in un contesto urbano non semplice: dovevano dialogare con la mole antonelliana e la cupola del duomo. Le due torri, per i torinesi le “zuccheriere”, ironizzando bonariamente sulla loro forma, presentano elementi architettonici squisitamente déco, eclettismi decorativi e una posizione tipica per quel gusto: le due torri si fronteggiano specularmente ai due angoli della strada e propongono due versioni diverse di se stesse in un gioco di rimandi molto interessante.

Torri Rivella, 1929. Fotografia di Bruna Biamino, 2010. Courtesy of Museo Torino

Roma, infine, conserva un luogo decisamente speciale. È il quartiere Coppedè, forse la versione romana del milanese Palazzo Fidia per fantasia eclettica in versione edile. Deve il suo nome all’architetto fiorentino Gino Coppedè che tra il 1915 e il 1927 realizza un insieme di ventisei palazzine e diciassette villini, tra la via Salaria e la via Nomentana. Con un estro e una fantasia da capogiro: greco antico, barocco, liberty, manierista, medievale, Art Nouveau sono gli stili che si incontrano in una mescolanza unica e geniale. Punto di riferimento per Coppedè è lo spagnolo Gaudì, ma qui l’influenza classica non deve mancare e il gioco art déco neppure. Si entra da via Doria attraverso un arco monumentale che segna, con un grande lampadario in ferro battuto a illuminarlo, il passaggio a un rito iniziatico.

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Misteri, maschere, cavalieri medievali accolgono il visitatore, che in un attimo si trova al cospetto della Fontana delle rane, ispirata nel nome a quella delle tartarughe firmata nientemeno che da Bernini in piazza Mattei: al posto dei barocchi delfini qui ci sono otto rane! Ad alzare la testa, ci si trova circondati da palazzi visionari, forse il più significativo è Palazzo del Ragno con motivi medievali e i villini, riccamente decorati e dedicati a tre città italiane, Roma, Firenze e Venezia. Un luogo unico, che ha dato vita a uno stile preciso, il Coppedè, appunto, ma, come sostiene Valerio Terraroli, terribilmente déco per la giocosità e l’eclettismo (decisamente sovrabbondante!) che lo contraddistingue.



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