Nel Pd la tregua interna non regge più, e persino la manifestazione senza bandiere, solo «per l’Europa», indetta dai sindaci dopo l’appello di Michele Serra, comincia a essere un serio problema per la segretaria del Pd. Ieri Giuseppe Conte, dopo aver liquidato il piano von der Leyen come «un delirio guerrafondaio che va contro ogni logica e buon senso», praticamente lo stesso commento della Lega (che parla di una «deriva bellicista») ha annunciato sdegnosamente che non sarà in piazza del Popolo il 15 marzo.
«Per che cosa? Per quale Europa? Ora c’è da prendere posizione sull’Europa della von der Leyen», ha spiegato con foga ai cronisti di Montecitorio, «le nostre idee sono chiare, sono per un’Europa che investa a favore dei cittadini, un’Europa più verde e solidale, non l’Europa del riarmo, non l’Europa delle armi».
Non ci stiamo
Poco prima Elly Schlein aveva ugualmente bocciato il piano della presidente della Commissione, con la stessa verve: «Non è la strada che serve all’Europa. All’Unione serve la difesa comune» invece così «rischia di diventare il mero riarmo nazionale di 27 paesi. E noi non ci stiamo», perché oggi «è irrinunciabile contrastare le diseguaglianze che sono aumentate», dunque «è il momento delle scelte e della chiarezza». Schlein annuncia che porterà questa sua linea al prevertice dei socialisti, giovedì, prima del Consiglio straordinario europeo.
Ma il voto unanime alle sue posizioni, nell’ultima direzione, in realtà nascondeva il fatto che la minoranza a quel voto non ha partecipato. Perché la sua linea non è condivisa da molti dirigenti del Pd. E l’iniziativa del piano europeo ha fatto deflagrare le differenze.
Ue libera, forte e Ursula
Martedì la vicepresidente dell’Europarlamento Pina Picierno ha reso pubblico un manifesto «per un’Europa libera e forte», citazione sturziana, che parte da Ventotene, ragiona di prospettive federali e soprattutto precipita sulle posizioni di von der Leyen per una Ue «che sappia difendersi e inizi ad adoperarsi tramite la creazione di una difesa comune europea, con una maggiore integrazione tra gli eserciti e investimenti strategici per garantire la sicurezza dei cittadini».
Il manifesto in poco ha raccolto un pacchetto di primi firmatari di assoluto riguardo, fra cui il francese Raphaël Glucksmann, membro di S&D e fondatore di Place Publique. Ma sono gli autografi italiani a colpire: Alessandro Alfieri, coordinatore della minoranza riformista, oltre a Filippo Sensi, Lia Quartapelle, Giorgio Gori. Fra loro spicca anche Alberto Losacco, vicinissimo a Dario Franceschini, grande elettore di Schlein, almeno fin qui. C’è il presidente del Copasir Lorenzo Guerini, che in genere si protegge dalle posizioni da trincea, perché rispettoso del suo ruolo istituzionale: invece stavolta firma. Firma anche Carlo Calenda, e definisce «sacrosanto» il piano di riarmo di von der Leyen.
Dal lato opposto serrano i ranghi le truppe della segretaria (sparse, visto che lei non ha mai accettato che si nascesse il correntone dei suoi sostenitori). Attacca Andrea Orlando: «Nelle parole di von der Leyen non solo non c’è l’Europa che vorremmo ma neppure qualcosa che assomigli a un sistema di difesa comune».
Rincara Arturo Scotto: «Regalare la parola pace a Trump e ai suoi sodali criptofascisti è un capolavoro di stupidità e improntitudine. Un’economia di guerra è esattamente l’acqua nella quale la destra nuota meglio. Da sempre. Perché società che si militarizzano coincidono con società più autoritarie». Bocciano la presidente anche la capogruppo dei deputati Chiara Braga, franceschiniana, e l’ex ministro Roberto Speranza: «No alla corsa al riarmo e no al taglio delle risorse alla spesa sociale».
Non c’è pace neanche nel Pd
Alla fine della giornata, dunque, la “pace schleiniana” non c’è più, è seppellita. E il gruppo dirigente ormai si mostra en plein air per quello che è: spaccato sull’Europa assai più di come non è stato fin qui sulla difesa dell’Ucraina. Giovedì, al prevertice dei socialisti, si vedrà se la segretaria Pd, e cioè del maggiore gruppo socialista a Bruxelles, si trascinerà i leader dei partiti fratelli, o finirà in minoranza.
E poi c’è la manifestazione del 15 marzo, quella organizzata dai sindaci su ispirazione di Michele Serra e di Repubblica a piazza del Popolo, a Roma: tutto bello, sì, ma in realtà è un altro bel grattacapo. Priva com’è di parole d’ordine che non siano un sacrosanto quanto general generico sostegno all’Europa, rischia di essere trasformata da qualcuno come un sostegno di fatto alle scelte della Commissione; e anche di certificare le divisioni delle opposizioni, sempre più irriducibili («Il bipolarismo italiano è finito», esulta Calenda).
E dunque di trasformarsi in una babele di piattaforme diverse, anche quelle delle forze politiche e sociali presenti: una colossale cacofonia che l’incolpevole bandiera blu con le stelline, l’unica ammessa, in teoria, non riuscirà a coprire.
Perché se è vero che i Cinque stelle non ci saranno, e che anche i rossoverdi sono più che perplessi (e bocciano senza appello il piano di riarmo), è pur vero che la Cgil, l’Anpi e l’Arci, e cioè le storiche infrastrutture della sinistra, martedì si sono riunite per discutere sul «che fare» quel giorno. In realtà hanno tutte intenzione di aderire all’iniziativa, per il suo indubbio segno pro Europa, anti Trump e anti Meloni. Ma già è molto difficile convincere i militanti a rinunciare a portare in piazza le bandiere della pace, certo non rinunceranno a sfilare con le loro storiche posizioni: non genericamente pacifiste, ma precisamente contro la fornitura delle armi a Kiev, come del resto fanno dall’inizio della guerra di aggressione russa contro l’Ucraina.
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