Greenwashing: strategie, rischi e nuove normative per le imprese

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Il 6 marzo 2024, il Parlamento Europeo ha pubblicato la Direttiva 2024/825/UE, cosiddetta Greenwashing, entrata in vigore il 26 marzo successivo. Si tratta di un provvedimento che guiderà i consumatori nella cosiddetta transizione verde, migliorando la tutela contro le pratiche commerciali sleali e garantendo l’accesso a informazioni trasparenti. Gli Stati membri dovranno recepirla nel proprio Ordinamento interno entro marzo 2026.

Cos’è il greenwashing e i suoi rischi per i consumatori

Il greenwashing rappresenta ormai un rischio molto serio per la libertà di scelta dei consumatori e la libera concorrenza, e consiste nell’adozione di strategie commerciali che promuovono un’immagine ingannevolmente positiva sull’impatto ambientale delle attività e dei prodotti di un’azienda.

Sebbene non si tratti di un fenomeno recente, il suo impatto è cresciuto proporzionalmente all’affermarsi dell’ecosostenibilità come valore fondamentale. Alcune imprese dichiarano politiche ecosostenibili inesistenti e cercano di trarre indebiti benefici. A fare le spese di un impegno ambientale solo apparente, spesso, sono l’ambiente e i consumatori.

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Gli interessi coinvolti in questo contesto sono molteplici e non sempre, come dovrebbe, la tutela dell’ambiente viene considerata alla stregua di valore imprescindibile.

I sette peccati capitali del greenwashing secondo Terra Choice

Terra Choice Environmental Marketing Inc., società di consulenza canadese specializzata nel marketing ambientale e nella promozione di pratiche sostenibili, ha individuato i sette peccati capitali del greenwashing, le principali strategie ingannevoli adottate dalle imprese:

  • Omessa informazione (hidden trade-off): consistente nell’enfatizzare gli aspetti apparentemente sostenibili di un prodotto, omettendo dettagli rilevanti sull’effettivo impatto ambientale;
  • Mancanza di prove (no proof): si attua vantando caratteristiche green senza fornire adeguate certificazioni o evidenze; 
  • Vaghezza (vagueness): termini ambigui o interpretabili che finiscono per fuorviare i consumatori; 
  • Adorazione di false etichette (worshiping false labels): il consumatore è spinto ad attribuire un valore eccessivo a etichette ingannevoli, o che simulano certificazioni ambientali mai ottenute; 
  • Irrilevanza (irrelevance): informazioni non pertinenti inducono maliziosamente il consumatore a percepire un prodotto come ecologico; 
  • Minore dei due mali (lesser of two evils): le caratteristiche positive di un prodotto vengono enfatizzate, e vengono omesse alcune implicazioni di rilevante gravità; 
  • Menomazione (fibbing): si dichiarano falsità sulle caratteristiche ambientali di un prodotto.

I sette peccati capitali, forse, potrebbero riassumersi in un unico concetto, consistente nell’approccio opportunistico e strategicamente ambiguo alle tematiche green, allo scopo di trarre qualche indebito vantaggio.

Le statistiche mostrano che molte affermazioni ambientali sono vaghe, ingannevoli o prive di solide basi scientifiche, alimentando la diffidenza degli investitori verso dichiarazioni e certificazioni ambientali.

Le conseguenze del greenwashing per le imprese

Condotte scorrette prive di rischi? Tutt’altro.

Le sanzioni comminate dall’AGCM di fronte alle pratiche di greenwashing sono potenzialmente elevate, ma non rappresentano l’unico pregiudizio che un’impresa può trovarsi ad affrontare. I danni d’immagine possono rivelarsi devastanti: se i consumatori perdono fiducia, i ricavi si riducono drasticamente, e le collaborazioni strategiche corrono il rischio di saltare. A queste voci di rischio devono aggiungersi i costi necessari per sostenere gli inevitabili e ingenti contenziosi giudiziari.

Greenwashing e greenhushing: due facce della stessa medaglia

Spaventate da queste potenziali sciagure, molte imprese adottano un approccio del tutto paradossale ai temi green: pur di non diffondere un’immagine virtuosa che le esponga al rischio del greenwashing, finiscono a minimizzare, se non addirittura per occultare, il proprio impegno ambientale.

È il fenomeno noto come greenhushing, strategia del tutto opposta al greenwashing, ma nemmeno questa è una pratica virtuosa! Tutto ciò che altera la trasparenza del mercato, in un modo o nell’altro, finisce per modificarne gli equilibri e per offrire al consumatore una rappresentazione inveritiera.

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Linee guida per combattere il greenwashing

Per contrastare questi rischi, la Direttiva descrive linee guida in grado di promuovere trasparenza e responsabilità:

  • Definire chiaramente gli obiettivi di sostenibilità aziendale.
  • Comunicare i principi che orientano l’impegno verso la sostenibilità.
  • Dettagliare le strategie per il raggiungimento degli obiettivi.
  • Esplicitare le metodologie per monitorare i progressi.
  • Verificare i dati divulgati attraverso terze parti indipendenti.
  • Pubblicare rendicontazioni complete e accessibili sulle iniziative intraprese.

Queste misure favoriscono un mercato più equo, rafforzando la fiducia e promuovendo una vera transizione sostenibile. Tuttavia, il rischio per le imprese di cadere, volontariamente o meno, in pratiche di greenwashing resta elevato, specialmente senza un’adeguata responsabilizzazione anche dei consumatori.

La Direttiva affronta questo problema con un duplice obiettivo: proteggere i consumatori da prodotti falsamente sostenibili e tutelare le imprese da concorrenza sleale. Per farlo, introduce divieti e obblighi di trasparenza più stringenti, ampliando le black list con nuove pratiche vietate.

Nuove regole sui marchi di sostenibilità

Un’importante novità riguarda i marchi di sostenibilità. D’ora in poi, l’utilizzo di tali marchi, che coprono aspetti ambientali o sociali, sarà consentito solo se emessi da autorità pubbliche (ad esempio, il marchio “Made Green in Italy”) o tramite sistemi di certificazione conformi ai requisiti della direttiva.

Queste disposizioni rappresentano un passo cruciale per garantire un mercato più trasparente, responsabile ed equo, incentivando un’autentica sostenibilità.

Limiti alle dichiarazioni ambientali

La Direttiva introduce un divieto assoluto sulle autodichiarazioni di impatto ambientale neutro, ridotto o positivo legate a pratiche di compensazione. Solo gli impatti effettivamente dimostrabili potranno essere comunicati, escludendo dichiarazioni ingannevoli quali “100% sostenibile” o “impatto zero”.

Limiti stringenti vengono imposti anche ai green claim generici, come “green,” “ecocompatibile” o “rispettoso dell’ambiente.” Tali affermazioni saranno vietate in assenza di un marchio di sostenibilità o di informazioni concrete e verificabili. Inoltre, sarà proibito formulare dichiarazioni ambientali senza prove che attestino le prestazioni dichiarate.

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A livello europeo, l’unico marchio riconosciuto è l’Ecolabel UE, che certifica prodotti e servizi con elevati standard ambientali lungo l’intero ciclo di vita. In Italia, il Comitato Ecolabel Ecoaudit sostiene l’applicazione del Regolamento Ecolabel UE, promuovendo la trasparenza e la fiducia degli investitori, con l’obiettivo di agevolare l’identificazione di investimenti sostenibili.

La Direttiva consente dichiarazioni ambientali su prestazioni future, ma solo se supportate da piani dettagliati, verificabili e resi pubblici. Tali piani devono includere obiettivi misurabili, scadenze precise e risorse adeguate alla loro realizzazione. La verifica periodica degli obiettivi sarà affidata a un ente indipendente, i cui risultati dovranno essere accessibili ai consumatori per garantire trasparenza.

Sanzioni e impatti del greenwashing sulle imprese

Le violazioni delle norme saranno sanzionate con il regime già applicabile per le pratiche commerciali ingannevoli, con multe importanti che impattano pesantemente sulle imprese, variando da 5.000 a 10.000.000 di euro. Se non vengono rispettati i provvedimenti urgenti o inibitori, le sanzioni possono salire da 10.000 a 10.000.000 euro, con la possibilità di sospendere l’attività commerciale per un massimo di 30 giorni. In caso di infrazioni che riguardano più Stati membri dell’UE, la multa può arrivare fino al 4% del fatturato annuo dell’impresa. Sebbene la direttiva 2024/825 debba essere recepita entro marzo 2026, alcune pratiche già rientrano tra quelle vietate dalle normative vigenti, per prevenire condotte illecite fino alla piena applicazione della nuova normativa.

Verso un mercato più trasparente

Il greenwashing rappresenta una minaccia non solo per consumatori e imprese, ma anche per la credibilità e l’integrità del mercato nel suo complesso.

È, quindi, fondamentale adottare un approccio bilanciato: prevenire e contrastare queste pratiche ingannevoli, fornendo al contempo alle aziende strumenti concreti per adeguarsi rapidamente e consapevolmente alla normativa.

Le imprese affrontano rischi significativi, tra cui sanzioni elevate, danni reputazionali e perdita di fiducia da parte di consumatori e investitori. Tuttavia, è evidente come, già nella fase di prevenzione, l’implementazione di criteri e politiche contro il greenwashing comporta costi economici rilevanti. In questo contesto, lo Stato deve intervenire per supportare gli operatori economici, tutelando al contempo il mercato e l’ambiente, due beni di primaria importanza.

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Anche il consumatore in un tale scenario gioca un ruolo cruciale. La sua sensibilizzazione è essenziale per prevenire il rischio di essere ingannato e per promuovere scelte più consapevoli e sostenibili.

Le sfide da affrontare sono quindi chiare: garantire una tutela efficace, sostenere le imprese nell’adottare comportamenti virtuosi e coinvolgere attivamente i consumatori. Solo così sarà possibile costruire un futuro basato su trasparenza, fiducia e sostenibilità.



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