Il report “Gli ingredienti del caporalato” mette in luce il meccanismo degli intermediari, tra società fittizie, lavoro grigio, elusione fiscale. Tutto pur di abbassare i prezzi. Un meccanismo perverso che si basa sulla ricattabilità della manodopera
Se cerchiamo il caporalato, non dobbiamo più guardare solo a Sud. È tra i filari delle Langhe, nelle serre lombarde, nelle campagne del Veneto. È ovunque, anche nelle filiere più ricche. Il nuovo report dell’associazione Terra! “Gli ingredienti del caporalato” lo dimostra.
Meno di un anno fa, Satnam Singh, un lavoratore sikh, è morto dissanguato a Latina, abbandonato dal suo datore di lavoro. Un episodio che ha scosso il Paese, facendoci aprire gli occhi su quello che succede nelle campagne italiane. Già pochi mesi prima, Al Jazeera aveva acceso i riflettori sulle Langhe, raccontando la realtà dei lavoratori stranieri sfruttati nelle vigne di uno dei territori più prestigiosi d’Italia. Così, i ricercatori di Terra! hanno deciso di indagare sul campo: dalle colline del Prosecco alle Langhe, dai frutteti di Saluzzo fino alla Lombardia e al Friuli Venezia Giulia.
Il risultato? Un sistema in cui lo sfruttamento si nasconde dietro nuove forme di intermediazione, rendendo tutto più difficile da individuare.
Le nuove forme di sfruttamento
Oggi il caporalato non si vede più a occhio nudo. Non ci sono più solo uomini in attesa alle rotonde per reclutare braccianti. Ora lo sfruttamento si nasconde dietro cooperative fantasma, partite Iva fittizie, società che esistono solo sulla carta. Un sistema perfetto per aggirare i controlli e ridurre le tutele dei lavoratori.
È un sistema dove le aziende agricole pagano le cooperative secondo le tariffe stabilite dal contratto provinciale, ma poi i lavoratori ricevono molto meno, perché nel mezzo c’è sempre qualcuno che trattiene una parte. E il peggio è che a volte gli stessi produttori non si rendono conto di quanto sia opaco questo meccanismo.
Ma chi gestisce questo sistema? Spesso sono gli stessi intermediari stranieri a reclutare i loro connazionali, a organizzare il loro lavoro, a trattenere una parte del loro stipendio. Alcune cooperative operano ai limiti della legalità, registrando sedi fittizie e sfruttando buchi normativi per eludere i controlli. Un trucco diffuso è l’uso di codici Ateco diversi da quelli agricoli: società di trasporto merci o di lavorazioni meccaniche che, sulla carta, sembrano aziende regolari ma che in realtà gestiscono manodopera agricola sottopagata.
Manodopera sempre più fragile e ricattabile
Un altro elemento comune nelle filiere dello sfruttamento è la manodopera a basso costo. Se un tempo erano i lavoratori dell’Est Europa a occupare questi posti, oggi la maggior parte arriva dall’Africa subsahariana o dall’Asia meridionale. Persone senza una rete sociale, spesso senza nemmeno una casa. E quindi più vulnerabili, più facili da ricattare.
Nelle Langhe, nel Veneto del Prosecco, nel Friuli delle barbatelle, un tempo a vendemmiare erano le famiglie del posto. Ora non basta più. E chi lavora nei campi lo fa spesso per necessità, senza prospettive, in attesa di un’alternativa migliore. «È normale che le persone considerino il lavoro in agricoltura come un ripiego e cercano di diventare operai di fabbrica, con paghe migliori», ha raccontato un intermediario in Friuli Venezia Giulia.
E poi c’è il lavoro grigio, una delle piaghe in espansione. Il lavoratore viene impiegato tutto l’anno, ma le giornate registrate non superano mai quelle necessarie per accedere alla disoccupazione agricola. Così, l’imprenditore paga meno tasse e il lavoratore resta sempre in una condizione di subalternità, senza tutele reali.
Il ruolo dei supermercati
Ma chi trae davvero vantaggio da tutto questo? La Grande Distribuzione Organizzata (Gdo). Oggi l’80 per cento dei consumi alimentari passa dalla cassa di un supermercato. Il potere della Gdo è enorme e cresce ogni giorno. I supermercati impongono prezzi bassissimi ai produttori, che spesso si trovano costretti a vendere al di sotto dei costi di produzione.
E quando il margine di guadagno scompare, lo sfruttamento diventa l’unico modo per restare sul mercato. «Il mio ricavo è zero», racconta un produttore piemontese nel report. Ed è così per molti altri. Se vogliamo davvero combattere il caporalato, non basta denunciare gli abusi nei campi: bisogna guardare a chi decide i prezzi, chi impone le regole. Perché finché il mercato premierà il prezzo più basso, qualcuno pagherà il conto. E sarà sempre l’anello più debole della catena.
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