La Sicilia soffre di malasanità acuta, e le cure sono lente e inefficaci

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Cominciò tutto, come accade spesso in questi casi, con qualche colpo di tosse più stizzoso degli altri, un doloretto, poi i crampi allo stomaco, gli esami di routine e i valori fuori norma. Qualcosa che non andava, qualcosa di brutto. Iniziò così il calvario di Maria Cristina Gallo, cinquantasei anni, insegnante di Mazara del Vallo, in provincia di Trapani. La sua, purtroppo, è una storia come tante: la storia di chi, all’improvviso, deve affrontare la battaglia più difficile, quella contro il tumore.

Maria Cristina, donna tenace, non si dà per vinta. E dà il via alla sua nuova routine, fatta di accertamenti, ulteriori esami, per capire la vastità del suo problema e calibrare la cura. Subisce un delicato intervento e fa anche un esame istologico, il prelievo di un campione di tessuto dal suo corpo – una neoformazione all’utero – un’indagine fondamentale per il suo percorso. In ospedale a Mazara le dicono di aspettare. Gli esami da fare sono tanti, il personale poco, il primario, poi, è andato da qualche giorno in pensione.  Ma non si preoccupi, la rincuorano, l’esito arriverà. Questione di giorni. O questione di settimane. Passano invece mesi. Ne passano otto.

Otto mesi. Duecentoquaranta giorni. Tanto ci vuole per sapere, nella sanità pubblica siciliana, il referto di un esame istologico di primaria importanza. Un responso che arriva tardi, nonostante le sollecitazioni, e pure una lettera dell’avvocato. Il tumore è aggressivo, è già in metastasi. L’esame, dopo così tanto tempo, non serve più a nulla. Il tumore è addirittura al quarto stadio. Nel tempo che gli rimane, la signora Maria Cristina ha deciso di rendere pubblica la sua storia, denunciando pubblicamente la sua vicenda, svelando, ancora una volta, la fragilità della sanità siciliana e delle vite che dovrebbe proteggere. La denuncia dell’insegnante di Mazara apre il classico vaso di Pandora. Sono decine, centinaia, i siciliani che stanno nel limbo della sanità pubblica, aspettando mesi per i referti, vedendosi rimpallare di scadenza in scadenza per una visita specialistica.

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Anche loro cominciano ad alzare la voce. Scrivono ai giornali, raccontano la loro esperienza. Come i figli del signor Paolo, infermiere in pensione, di Salemi, sempre in provincia di Trapani. Viene operato il 24 settembre per l’asportazione di un tumore. Attende anche lui il referto dell’esame istologico. Passano i mesi. È morto qualche settimana fa, nell’attesa. Ma perché tutti questi ritardi? E, soprattutto, quanti sono? Nella confusa gestione della sanità siciliana, ci sono poche certezze. L’unica è che i laboratori di Anatomia patologica delle aziende sanitarie pubbliche accumulano ritardi spaventosi.

Per fermarci al caso di Trapani, dall’Azienda Sanitaria Provinciale fanno sapere che ne mancano all’appello trecento, di esami da fare, ma gli ispettori della Regione, inviati in questi giorni dopo le polemiche, ne hanno contati mille. Su otto medici di Anatomia patologica previsti dalla dotazione organica dell’azienda sanitaria, tra l’altro, ce ne sono in servizio  soltanto tre.

«Non voglio giustizia, ma voglio contribuire a migliorare il sistema sanitario per il futuro di tutti, e per i miei figli», dichiara Maria Cristina Gallo. La sua battaglia sta dando voce a tanti. La politica che in questi anni ha pensato a spartirsi tutto quello che si poteva dividere nel campo della sanità, resta muta. L’unico ad essersi mosso è il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè, che ha fatto visita all’insegnante. «Alla signora Gallo – dice Mulè – ho portato le scuse nel nome di tutti coloro che ancora oggi non hanno ritenuto di farlo guardandola negli occhi, le ho ribadito e assicurato tutta l’assistenza che le sarà necessaria a lei e alla splendida famiglia per continuare la sua lotta».

Il presidente della Regione, Renato Schifani, dal canto suo convoca tavoli, striglia manager e direttori, minaccia commissariamenti, invia ispettori rilascia note stampa in cui assicura la sua «assoluta determinazione a prevenire e gestire situazioni analoghe per evitare che si possano ripetere». E cambia gli assessori: l’ultima, Daniela Faraoni, ha preso il posto di Giovanna Volo, dopo i tanti scandali estivi, tra cui quello di una donna che, secondo la denuncia dei familiari, era morta dopo essere stata lasciata in barella per ben otto giorni all’ospedale di Palermo. O la morte di un uomo, in un altro ospedale, sempre a Palermo, in attesa da diciassette giorni di un intervento ortopedico.

A Patti, invece, in provincia di Messina, a un uomo di trent’anni, vittima di una brutta caduta, è stata immobilizzata una gamba rotta con del cartone da imballaggio, perché in ospedale non c’era nulla (tra l’altro si scoprirà che era pure sbagliata la diagnosi, la frattura era scomposta, e il giovane è stato “salvato” da un centro privato, che gli ha ingessato correttamente la gamba alla modica cifra di duecento euro).

Ma la sanità siciliana sballa, dalla coda alla testa. Lo stesso presidente della Regione è impegnato in questi giorni in un altro fronte, quello aperto dalla Corte dei Conti che, ancora una volta, ha denunciato la mancata attuazione, da parte della Regione Siciliana, di quello che era una volta il piano di potenziamento della rete ospedaliera per gestire l’emergenza Covid. La pandemia è finita da un pezzo e la Regione ha ancora i cantieri aperti per creare padiglioni per le malattie infettive, nuovi posti letto per le rianimazioni, ospedali.

Secondo la magistratura contabile i posti di terapia intensiva previsti dal piano Covid dovevano essere, in Sicilia, settecentoventi. Ne sono stati realizzati solo centocinquantuno, dei quali in uso centonove. I posti letto di terapia sub intensiva dovevano essere trecentocinquanta e, invece, ne sono stati realizzati centosedici, di cui solo settantotto collaudati e in uso. Occhi puntati pure sui ventiquattro interventi programmati di adeguamento delle aree di pronto soccorso, di questi appena otto sono stati effettivamente realizzati, di cui sei collaudati e in uso. Schifani replica parlando di dati inesatti, e di «lavori in via di ultimazione» eccetto in alcuni territori. In questa vivace corrispondenza, la Corte dei Conti muove altre contestazioni, dalle «gravi criticità gestionali risalenti alla fase emergenziale» fino alla «necessità di recuperare con estrema urgenza l’economicità e l’efficienza della spesa».

Paradossalmente, uno dei pochi per cui la sanità pubblica siciliana ha funzionato, in questi anni, e lo possiamo dire con certezza, è Matteo Messina Denaro. Sin dai primi sintomi della sua malattia il boss – che si dichiarava nemico dello Stato – si è affidato alle cure del servizio pubblico, che per lui, come raccontano le cronache, sono state particolarmente efficienti: visite pressoché immediate dai migliori specialisti, operazioni, biopsie, e cure tempestive nella corsa contro il tempo per il devastante tumore al colon che lo aveva colpito e che ne causerà la morte, sempre però assistito dallo Stato (ma in carcere).

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Basta citare queste date: ai primi di novembre del 2020 si opera, il 24 novembre arriva per lui il referto del laboratorio di anatomia patologica dell’ospedale di Castelvetrano, sul suo tumore. Subito parte la richiesta della visita oncologica da parte dell’ospedale di Mazara del Vallo. Il 3 dicembre il reparto di Oncologia dell’ospedale di Trapani fissa la visita, per il 9 dicembre. Tre ospedali in rete che lavorano in maniera efficiente, per dare le migliori risposte al paziente in pochi giorni. Questa è la sanità pubblica che ci piace. Il bello è che, in tutto ciò, Messina Denaro usava un falso nome, quello di Andrea Bonafede. Chissà cosa sarebbe accaduto, allora, se si fosse presentato con il suo nome.



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