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Ha suscitato molto scalpore e generato reazioni e commenti piuttosto contrastanti l’approvazione da parte del Consiglio regionale della Toscana della legge con cui la regione ha deciso di disciplinare sul proprio territorio il suicidio medicalmente assistito (11 febbraio 2025, legge regionale n. 5/2025: “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte Costituzionale 242/2019 e 135/2024”).
In questa legge, per altro poco discussa nel suo iter di approvazione, si trova scritto che tale provvedimento “tutela la dignità della vita della persona nel rispetto della Costituzione“, e proprio per questo induce necessariamente a porsi delle domande fondamentali: a quale idea di dignità della vita si vuole fare riferimento? Quali esigenze profonde dell’uomo si vogliono tutelare?
Nel dibattito che si è svolto in Consiglio regionale si è fatto appello al diritto di scegliere, alla libertà personale e al diritto di autodeterminazione, poi però nella legge è scomparso qualsiasi riferimento al tema dell’autodeterminazione, perché la materia sarebbe uscita dalla possibilità di legiferare da parte della Regione, ma si è continuato a insistere sul tema della dignità.
Nei Paesi dove le pratiche di Mma (Morte medicalmente assistita) sono in vigore ormai da tempo (è il caso del Belgio, ad esempio, dove la Mma è attiva dai primi anni ’90 del secolo scorso) si è assistito a un continuo allargamento dell’accesso a tale pratica.
Presentata inizialmente come strumento per tutelare la “dignità” della persona affetta da una malattia inguaribile, e per tale considerazione attribuita senza dubbio all’ambito medico, col passare del tempo – e a seguito di molti studi condotti in materia – è emerso come la pratica della Mma fosse in realtà più legata a una volontà di decidere in merito alla fine della propria vita (perché sia “degno” questo difficile passaggio) o a una perdita del senso del vivere.
Ma se sono queste le vere motivazioni a cui la pratica indirizza, perché continua a essere riportata e considerata come una questione medica quando attiene invece, innanzitutto, a una dimensione antropologica e culturale, e quindi sociale, e solo successivamente risulta una questione anche medica?
Quando Cicely Saunders incontrò il suo primo paziente, David Tasma, e ascoltò e prese in carico la sua condizione di sofferenza, rimase con lui e lo curò fino alla sua morte.
Da quel primo paziente, nei venti anni successivi, per prendere in carico davvero le persone sofferenti che incontrava sono nate le cure palliative, cure che hanno riportato nella medicina una dimensione di presa in carico globale della persona: “Penso che tutti sappiate che il modo che io preferisco per raccontare il St.Christopher [primo hospice della storia, da lei fondato] è quello di dire che esso trova il suo fondamento nei pazienti, quelli che abbiamo avuto il dono di conoscere e che ora sono ‘salvi’ dopo aver attraversato questa parte della vita” (C. Saunders, Nursing Time 61, 1965: 48).
Per la Saunders, l’oggetto della cura era la persona sofferente, dunque, e non la malattia, come invece insegnano i dettami del medico “cartesiano” emerso dalla rivoluzione scientifica e dall’epistemologia positivista.
Nei Paesi dove la Mma è ormai avallata da anni, si veda ad esempio quello che scrivono Marianne Dees e collaboratori («’Unbearable suffering’: a qualitative study on the perspectives of patients who request assistance in dying». Journal of Medical Ethics 2011; 37: 727-734), le motivazioni che portano a fare tale scelta sono le seguenti: “Depressione, dolore non controllato, stanchezza estrema, malessere generale, dispnea, emozioni negative, perdita del sé, perdita di identità, impotenza, paura per la sofferenza futura, sensazione di essere un peso, dipendenza dagli altri, percezione di essere ‘tagliati fuori’, incapacità comunicativa, solitudine, perdita di attività considerate fondamentali per la propria esistenza, mancanza di speranza, mancanza di scopo, stanchezza di vivere“.
Di fronte a questa situazione ci si deve chiedere: ci stiamo prendendo cura delle persone con queste sofferenze meglio di come lo facevamo venti anni fa o stiamo semplicemente delegando alla Mma la soluzione perché non vogliamo o non sappiamo più farcene carico? C’è un parallelo e proporzionato servizio di assistenza/presa in carico delle persone con queste sofferenze?
Continuare a difendere la vita di queste persone, curando la loro sofferenza in qualsiasi condizione si trovino, significa continuare anche a difendere e far crescere la ricerca e lo sviluppo della cura, che altrimenti perde il suo oggetto e il suo stesso scopo: la persona sofferente. Diversamente la medicina si trasformerebbe in tutela dei desideri dei sani e supporto bio-tecnologico a una vita tanto ideale, quanto astratta.
La cura, la medicina, nascono da uomini e donne che stanno davanti a quella sofferenza e, commossi dal sentirsi uniti al destino dell’altro, muovono e investono la loro intelligenza, il loro tempo, donando persino la loro stessa vita talvolta, affinché si trovino soluzioni migliori e sempre più efficaci per alleviare quella sofferenza e quella solitudine, renderla umana, appunto degna.
Quelle appena proposte sono solo alcune delle riflessioni e considerazioni che, a valle della approvazione della legge toscana sulla Mma, sono emerse in un gruppo di sanitari che fa riferimento alla associazione Medicina e Persona di Firenze e che ha ritenuto necessario interrogarsi e reagire in proposito.
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