Il governo ha dato il via all’iter ritenendo che questa energia sia fondamentale alla decarbonizzazione e per raggiungere il Net Zero entro il 2050. Ma, dopo aver «spento la macchina» per 35 anni, dovremo dotarci di nuove tecnologie, competenze e risorse umane
C’è chi, come la grande industria, lo vede come una fonte necessaria per la transizione perché produce energia in modo continuo senza emettere Co2. Chi, come alcune associazioni ambientaliste, è contrario e solleva il problema dei rifiuti. E chi ancora ne ha una preclusione a prescindere, perché ha paura e lo considera un tabù. Il nucleare era e rimane un tema fortemente emotivo e divisivo. Tra «Sì nuke» e «No nuke» oggi il tema è rientrato ufficialmente nell’agenda italiana. Il 28 febbraio, il Consiglio dei ministri ha dato il calcio d’inizio, approvando la legge delega per riaprire il file e ricostruire il quadro giuridico dopo la chiusura – a seguito dell’incidente di Chernobyl del 1986 e dei referendum abrogativi del 1987 – delle quattro centrali atomiche in funzione (la quinta non entrerà mai in servizio).
«Agli albori del nucleare negli Anni 60 – ricorda Stefano Monti, presidente della Società Nucleare Europea e dell’Associazione Nucleare Italiana – l’Italia era la terza nazione al mondo in termini di potenza installata e nei successivi decenni aveva dimostrato di essere in grado di gestire anche le tecnologie nucleari più innovative». L’era dell’atomo, inaugurata alla fine degli Anni 50, aveva portato alla nascita nel 1963 della prima centrale a Latina, seguita da quelle di Garigliano (Caserta), Caorso (Piacenza) e Trino Vercellese. Montalto di Castro (Viterbo), ormai pronta, non entrerà mai in funzione. Dal 1999 i siti delle centrali dismesse sono di proprietà della società pubblica Sogin, che si sta occupando dello smantellamento e della riconversione delle aree. Con il «governo del fare» di Silvio Berlusconi nel 2009 Roma vara una nuova strategia energetica nazionale che prevede il ritorno al nucleare. Ma la storia si metterà di traverso un’altra volta: lo tsunami che causò l’incidente alla centrale di Fukushima-Daiichi in Giappone portò a un nuovo referendum (abrogativo) nel 2011.
Ora l’Italia ci riprova, in un momento storico profondamente cambiato: siamo in transizione energetica e il Net Zero al 2050 impone di decarbonizzare le nostre vite, dall’industria alla mobilità e ai consumi. Ma come produrremo tanta energia elettrica green? Il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica lo ha dichiarato: «Le sole rinnovabili non bastano. Soltanto con un mix di fonti che includa anche il nucleare di nuova generazione potremo farcela». La legge delega prevede che il governo adotti entro un anno una serie di decreti legislativi per disciplinare la materia in maniera organica e che sarà istituita un’Autorità indipendente per la sicurezza, la vigilanza e il controllo. Nel frattempo, sarà al lavoro la nuova società a guida Enel che con Ansaldo Energia e Leonardo studierà le tecnologie. «La newco è in formazione. È in corso la selezione del partner tecnologico», ha dichiarato il ministro delle Imprese Adolfo Urso.
E arriviamo al punto: ma il nuovo nucleare ce l’abbiamo? Ora no.
«L’Occidente – spiega Marco Ricotti, ordinario di Impianti nucleari al Politecnico di Milano – si trova a rincorrere Paesi come Cina, Russia e India che non hanno mai smesso di realizzare nuovi impianti e hanno anche sviluppato nuove tecnologie innovative quali gli Small Modular Reactors e gli Advanced Modual Reactors. I Paesi Ocse stanno finalmente reagendo: Smr saranno infatti in costruzione nei prossimi anni in Canada, Usa, Gran Bretagna e anche la Francia li sta sviluppando. La Ue ha lanciato l’iniziativa Smr Industrial Alliance con l’obiettivo di avere in esercizio almeno un Smr verso il 2030». E non è un percorso facile. «Si tratta – aggiunge Ricotti – non solo di sviluppare un reattore competitivo, ma anche di assicurare le forniture di combustibile e di rafforzare e parzialmente modificare le catene di fornitura per assicurarne la produzione in serie». Il nostro Paese è pronto a «rimettere in moto» una macchina spenta da più di 35 anni? «L’Italia – assicura Stefano Monti – può ancora contare su notevoli competenze. Sono invece assai depauperate le competenze sul combustibile nucleare e il relativo ciclo. Altro problema è quello di aumentare e formare risorse umane adeguate, portandole dalle circa 10 mila di oggi a oltre 100 mila».
L’amministratore delegato di Sogin Gianluca Artizzu cita la RaMS, la Scuola di Radioprotezione, che «oltre all’attività interna ha diffuso verso l’esterno le competenze e svolge anche divulgazione nelle scuole e università». Nel frattempo resta da affrontare il tema dei rifiuti, sia quelli derivanti dallo smantellamento delle centrali («quelli ad alta attività sono 14 mila metri cubi e comunque tutti in sicurezza», precisa Artizzu) sia quelli che continuiamo a produrre nell’industria e negli ospedali (con la medicina nucleare). E il deposito nazionale, atteso da anni e che nessuna comunità vuole accanto a casa, resta una chimera.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link