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Per un lungo periodo le politiche di difesa e di sicurezza non sono state considerate materia di competenza europea, ma di esclusiva competenza nazionale. Aveva concorso a questa scelta il fallimento della Comunità Europea di Difesa nel 1954 per effetto del rifiuto francese di aderirvi. Il ricordo della guerra che aveva insanguinato l’Europa era ancora troppo vicino e divisivo per consentire a nazioni che si erano duramente contrapposte di unirsi in un sistema condiviso di difesa. E peraltro proprio aver dovuto affrontare due guerre mondiali in trent’anni induceva ogni nazione europea a ritenere che la migliore tutela della propria sicurezza e sovranità fosse la propria struttura militare.
Con realismo ne presero atto i padri costituenti scegliendo di fondare il processo di integrazione europea su pilastri economici: la Comunità del Carbone e dell’Acciaio (CECA), il Mercato Comune europeo (MEC) e l’Euratom. Da lí in poi, come sappiamo, l’integrazione europea ha proseguito il suo cammino estendo i campi di integrazione fino al mercato unico, all’euro, a Schengen, alla PAC agricola e a direttive comuni e programmi europei in molti settori. Ma quell’autoinibizione a occuparsi di difesa fu rigorosamente mantenuta. Tant’è che mentre erano parte costitutiva dell’architettura comunitaria le periodiche riunioni ministeriali tematiche (esteri, agricoltura, interni, commercio, industria, cultura, ecc.) mai si ebbero riunioni dei ministri della difesa.
Le cose iniziarono a cambiare nel 2016 quando le ministre della Difesa (tutte donne) di Italia, Germania, Francia e Spagna sottoscrissero una Dichiarazione comune sollecitando la Commissione europea ad affrontare i temi della sicurezza e difesa comune. Proposta che l’Alto Rappresentante Federica Mogherini raccolse, avviando un percorso che un anno dopo avrebbe portato all’atto fondativo della Politica di difesa e sicurezza comune (PESCO) sottoscritto da 25 paesi su 27. E attraverso tappe successive l’Unione giunse ad adottare una “bussola strategica”, programmando processi graduali di standardizzazione uniforme di assetti militari e logistici. Il tutto accompagnato da missioni militari e civili di peacekeeping sotto bandiera europea.
Ho ricordato questo percorso perché lí affondano le radici delle decisioni che ha assunto il Consiglio europeo del 6 marzo, naturalmente in uno scenario oggi assai più critico: le guerre alle porte di casa – in primo luogo l’aggressione russa all’Ucraina -, l’instabilità nel Vicino Oriente, nel Mediterraneo e nel Sahel, nonché la decisione di Donald Trump di arrivare rapidamente a un’intesa con Vladimir Putin, accettando le condizioni capestro che ridurrebbero l’Ucraina a una “nazione a sovranità limitata” sotto influenza russa. E mentre l’offensiva russa diventa ancor più aggressiva sfruttando la sciagurata decisione di Trump di interrompere le forniture militari a Kiev, grava sulle spalle dell’Unione europea la responsabilità di sostenere l’Ucraina e di impedirne il collasso. Peraltro Trump ha più volte annunciato la intenzione di ridurre l’impegno americano nella Nato, il che a maggior ragione impone all’Europa una assunzione diretta di responsabilità per la propria sicurezza.
Di qui la scelta di varare un ambizioso Piano per dotare l’Europa delle strutture militari e logistiche in grado di garantire la sicurezza del continente. Ha suscitato reazioni che quel piano fosse denominato “Rearm Europe” formula che però non è stata usata nella dichiarazione finale del Consiglio europeo. Così come la dimensione globale di 800 miliardi di euro – tra risorse europee, statali e private – per finanziare investimenti nei settori militari e logistici non è finalizzata a provocare guerre o conflitti armati, ma a dotare l’Europa di una forza che dissuada e contrasti chi – come la Russia di Putin o altri – voglia scatenare guerre e conflitti armati. La pace per essere sicura e tutelata ha bisogno di una forza che fermi chi la voglia insidiare.
Anche su come l’Unione contribuirà a finanziare il Piano le conclusioni del Consiglio europeo hanno chiarito che non si ricorrerà a risorse destinate ad altre finalità, in particolare a fondi per la coesione sociale, ma si farà ricorso – come già sperimentato con Next Generation EU – a debito comune con l’emissione di bond per 150 miliardi per finanziamenti finalizzati a sostenere programmi europei di standardizzazione e integrazione degli assetti militari e logistici, superando gradualmente l’attuale frammentazione di investimenti su progetti soltanto nazionali.
Dotarsi di un’autonoma politica di difesa impone altresì di definire due profili: il rapporto di complementarietà tra la politica europea e la Nato e definire “chi decide” con un riforma dei meccanismi decisionali e l’adozione di una vera politica estera europea di cui una politica di difesa è funzione.
Certo sono scelte ambiziose e impegnative. Ma sono i rivolgimenti dello scenario internazionale a imporre scelte ineludibili per difendere i valori su cui sono fondate le democrazie e per garantire un vita del mondo fondata sul rispetto dello stato di diritto, le libertà democratiche e i diritti sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Scelte che devono vedere anche l’Italia impegnata con determinazione e senza reticenze. Le incertezze che si sono manifestate nella maggioranza di governo e tra le opposizioni rischiano di rappresentare l’Italia come un paese su cui non poter contare, con l’evidente conseguenza di una marginalità e una subalternità a decisioni altrui. Un rischio che va contrastato in ogni modo e il PD – che ha nei suoi fondamenti identitari il federalismo europeo – deve sentire la responsabilità di tenere alta la bandiera di un’Europa unita e forte. Ed è per questo che saremo in tanti sabato 15 marzo a Roma a sventolare le bandiere blu dell’Unione europea.
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